Probabilmente molti degli studenti cinesi che presero parte alle manifestazioni in piazza Tian’anmen tra l’aprile e il giugno 1989 non intendevano rivoluzionare da capo a fondo il sistema governativo del loro paese, ma semplicemente riformarlo dall’interno e farlo avanzare sulla strada delle riforme già intrapresa con l’appoggio di una parte dei dirigenti comunisti dell’epoca.
Il loro movimento s’iscriveva infatti nelle orme di leader del PCC come Hu Yaobang e Zhao Ziyang. La scintilla che innescò le manifestazioni fu appunto la morte di Hu Yaobang il 15 aprile dell’89. Hu, segretario di partito dal 1980 al 1987, era stato allontanato dal suo incarico nell’87 proprio per non aver dimostrato un pugno abbastanza duro contro delle proteste studentesche in quell’anno. Due anni dopo, gli occupanti di piazza Tian’anmen chiedevano la sua riabilitazione politica e la messa in pratica dei principi di democrazia, trasparenza e lotta alla corruzione che vedevano incarnati nella figura di Hu Yaobang.
A venir loro incontro in questo sforzo c’è Zhao Ziyang, divenuto segretario generale dopo Hu, che si dimostra particolarmente aperto al dialogo e alle riforme. Ma Zhao rappresenta solo una tendenza all’interno del partito. L’altra è quella conservatrice e reticente alle riforme, incarnata dal primo ministro Li Peng. Sarà quest’ultima ad avere la meglio. Nell’89, all’apice delle proteste di piazza, Deng Xiaoping, leader dell’epoca, toglie la segreteria del partito a Zhao Ziyang, rimpiazzandolo con Jiang Zemin. Poi, il 20 maggio, viene dichiarata la legge marziale.
Nella notte tra il 3 e il 4 giugno i carri armati avanzano in piazza Tian’anmen e mettono fine con la forza alle manifestazioni degli studenti in sciopero della fame. È chiaro oramai che dopo le “quattro modernizzazioni” – dell’industria, della scienza, dell’agricoltura e della difesa nazionale – non ce ne sarà una quinta: quella della democrazia.
Mercoledì scorso migliaia di persone hanno ricordato quella notte dell’89 illuminando con delle fiaccole le strade di Hong Kong. È ugualmente ad Hong Kong che ad aprile di quest’anno è stato inaugurato il primo museo al mondo in memoria degli eventi di Tian’anmen.
Nel resto della Cina invece è il silenzio. Venticinque anni dopo, il governo cinese non ha mai dichiarato il numero delle vittime della repressione del 4 giugno. Le stime che sono state potute fare sulla base delle testimonianze vanno dalle varie centinaia alle migliaia.
Molti leader studenteschi furono arrestati, mentre altri riuscirono a fuggire all’estero evitando la prigione. Oggi molti di loro vivono negli Stati Uniti, alcuni a Taiwan.
Mentre nel resto del mondo si parla di “massacro di Tian’anmen”, in Cina si parla di “incidente del 4 giugno”. Un dibattito pubblico su questa pagina storica non è mai stato iniziato e l’argomento resta tabù nell’arena pubblica. Molti non sanno, molti cercano di non sapere.
In Cina tutti i riferimenti al 4 giugno sono censurati su internet – dalle foto fino alle varie combinazioni dei numeri quattro e sei che indicano il giorno e il mese – soprattutto all’avvicinarsi dell’anniversario ogni anno.
Quest’anno in particolare, oltre all’abituale censura su internet, i mesi precedenti il 4 giugno hanno visto anche l’arresto di una decina di attivisti che avevano partecipato a una riunione sulle proteste di Tian’anmen.
Mercoledì, in conferenza stampa, di fronte alle domande dei giornalisti stranieri riguardo queste detenzioni, il portavoce del ministero degli esteri Hong Lei ha dichiarato: “In Cina ci sono solo delle persone che infrangono la legge; non ci sono dei cosiddetti dissidenti”.
“Il governo cinese,” ha detto, “ha raggiunto da tempo una conclusione riguardo i disordini politici della fine degli anni ’80”. Hong ha poi sottolineato “gli enormi passi avanti della Cina in campo economico e sociale” e nella costruzione “della democrazia e dello stato di diritto”.
A rinforzo di queste dichiarazioni, in un editoriale del giornale di stato Global Times dall’eloquente titolo “25 anni dopo, la società più risoluta nel suo cammino”, si legge : “La Cina ha trovato un cammino di crescita efficace […] La società cinese non ha mai dimenticato l’incidente di 25 anni fa, ma il fatto di non parlarne è la scelta di comportamento della [nostra] società”.
La crescita, lo sviluppo, la modernità. E in cambio la rinuncia a poter partecipare da cittadini alla “quinta modernizzazione”. Ecco il compromesso che molti cinesi oggi, volenti o nolenti, accettano.