
Il sindaco di Torino Piero Fassino
Piero Fassino, già segretario dei Democratici di Sinistra, due volte Ministro della Repubblica, in atto Sindaco di Torino, uomo di meritorio e sperimentato corso (fu eletto consigliere comunale nel 1975), ha dichiarato che Giorgio Orsoni, il Sindaco di Venezia arrestato nell’indagine sul MO.S.E., è “una persona corretta”. Assumiamo che non sia un giudizio sul contenuto delle indagini: d’altra parte, è improbabile che un uomo politico della sua avvedutezza non conosca la “Costituzione materiale” (chissà Mortati…) di questo Paese e, pertanto, non sappia che la “Costituzione più bella del mondo” non prevede più la presunzione di innocenza, ma, al contrario, la presunzione di colpevolezza. Sicchè, deve trattarsi o di un modo per introdurre una riflessione di carattere generale o di una specifica attestazione di stima sul piano umano. Di quest’ultima non sappiamo nulla: se fosse, però, si segnala una tempra non indegna, e remota dall’impaccio pavidamente ciarliero mostrato in questo caso dall’attuale leadership renziana. Qualcosa si può dire, invece, sull’ipotizzata riflessione.
C’è un problema endemico nella gestione amministrativa? Nella qualità media della classe dirigente politica? Nel peso effettivo acquisito dall’Ordine Giudiziario? Forse quella frase, “Orsoni è una persona corretta”, pronunciata imperiosamente all’indicativo, vuole alludere a tutto questo? Eh no, caro Fassino, non va bene. Ci dovevate pensare prima. Ora, è troppo tardi. Non ci crede più nessuno alla politica.
Tutto, dalle vostre parti, è cominciato all’incirca dalla morte di Moro. Lo show-down si è avuto con Tangentopoli, quanto alla c.d. area moderata; ma l’erosione di funzione e di identità era cominciata, per tutti, Voi compresi, con la scomparsa di Moro. Lasciando orfano Berlinguer (le rievocazioni vanamente acritiche cadute in queste settimane, privilegiando il registro della beatificazione su quello dell’analisi, ne hanno appannato la grandezza amletica, così intensamente tragica perché intensamente storica e contraddittoria), finì con l’innescare una spirale di svuotamento e di indebolimento anche nella sinistra partitica, sempre meno capace di orientare interpretazioni della società viva e di intervenirvi.
Caduti i muri, una lunga tradizione di militanza e di iniziativa, chiara e riconoscibile, si immerse nel turbine di Mani Pulite, convinta di domarlo. Ne uscì al prezzo di un ottuso trasformismo, con cui svendette i suoi postulati politici più antichi: la tutela dell’individuo da apparati statuali violenti e oppressivi, e l’autonomia intellettuale da ogni azionismo elitario e intimamente antipopolare: transitando “dal materialismo storico al moralismo storico”, come Giancarlo Pajetta aveva sarcasticamente liquidato la “questione morale”, varata nella celebre intervista con Eugenio Scalfari. Da forza politica che era, ne uscì amorfa massa di manovra sottomessa all’impostura lobbistico-inquisitoria di certo cotè “alternativo” (da Surgenia, Gruppo Cir-De Benedetti, pare manchino 3,9 miliardi di Euro; ma qualcuno provvederà; nel frattempo, attendiamo fiduciosi che agli indomiti e indipendenti giornalisti-scrittori-presentatori dell’entourage torni la voce).
Poiché la politica, cioè la vita comunitaria, cominciò a non rinvenire nei partiti, i partiti-massa, i partiti-apparato, i partiti-paese, i suoi tradizionali luoghi di espressione e di organizzazione, dovette cercarne altri e, con luoghi nuovi, dovette cercare nuove forme di espressione e di comunicazione.
Pronte, sovvennero le Organizzazioni sociali, sindacali in primis. Per meglio regolare progettazione e impiego di risorse. Fu una svolta: dal rapporto bilaterale con “i padroni”, si passava al rapporto triangolare “Governo-Sindacati-Imprese”. In luogo del conflitto, che rimandava poi alla sintesi legislativa e parlamentare per le conclusioni e i provvedimenti politici, si affermava la partecipazione diretta alla elaborazione decisoria: i sindacati entravano in sala-parto. E il Governo ne riceveva, in contropartita, di “domare” l’eccessiva capacità rivendicativa della forza-lavoro, di arginare la proliferazione degli interessi sociali e di combattere l’inflazione. Pantomime a parte.
Quando questo modulo, (nerbo reale del consociativismo, che fu poderoso fenomeno socio-economico, non superficiale accordo fra segreterie politiche), si intersecò con la catastrofe parlamentare e partitica determinata da Tangentopoli (i partiti erano in crisi, ma la loro catastrofe fu innescata), la politica uscita dalla Costituente era già morta. Il discorso funebre fu pronunciato da Craxi, di fronte ad un Parlamento vilmente ammutolito verso la verità del finanziamento ai partiti.
Il tribunato di Berlusconi ha solo prolungato i funerali, mentre i suoi oppositori hanno continuato ad irrigidire lo squilibrio istituzionale magistratura-politica, a foraggiare un’estasi ed una voluttà inquisitorie che, proprio in questi giorni, stanno miseramente denudandosi innanzi al complice CSM.
I costi della politica, con la copertura della Legge (postribolare per essenza e natura) sono cresciuti fino alle vette di Report-Di Pietro, delle tesorerie margheritine (Lusi ha singolarmente portato alla luce il troppo che c’era) e delle transazioni african-leghiste.
E ora? Ora niente, caro Fassino. Ora ci sono solo le jene e gli sciacalli, più o meno sorridenti, “interconnessi”, o “euro-risk free”. Non c’è più nemmeno memoria dei gattopardi che li nutrirono e li allevarono per il “verso” giusto.
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