Dopo una serie di porte sbattute in faccia, il segretario di Stato John Kerry ha mestamente proposto a palestinesi e israeliani "una pausa" di riflessione. Se la pausa è in corso da anni, nessuno, in compenso, sembra aver voglia di riflettere.
Sullo stato attuale della “guerra dei cent’anni” in Palestina si possono fare alcune rapide osservazioni.
La prima, ovviamente, riguarda gli Stati Uniti, e la loro palese incapacità di imporsi. Non solo a israeliani e palestinesi, d’altronde. Questo declino dell’influenza americana comporterà necessariamente uno sconvolgimento dei rapporti di forza regionali che, per più di mezzo secolo, hanno avuto negli Stati Uniti il loro offshore balancer, l’elemento equilibratore esterno.
Chi potrà riempire i vuoti lasciati dagli americani nella regione? Teoricamente, i candidati sono molti. La Russia in testa, ma anche l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Iran, gli europei e, seppur più nell’ombra, la Cina. Teoricamente, perché ciascuno di questi candidati ha, per una ragione o per un’altra, il fiato corto. Dopo l’esito catastrofico della “primavera” egiziana, i russi e i sauditi parevano aver guadagnato qualche punto; ma la crisi ucraina per gli uni, e la minaccia iraniana per gli altri, sembrano aver raffreddato gli slanci iniziali.
Un’ipotesi è che gli Stati Uniti stiano puntando sull’Iran. Da un punto di vista strategico, un forte alleato nella regione vale più di tre o quattro alleati deboli e infidi. Ma, se questo è lo scopo, non è detto che il tentativo riesca: non solo per le opposizioni incrociate esterne, ma anche per le opposizioni interne agli stessi Stati Uniti e Iran. Inoltre, sarebbe bene non dimenticare che, almeno dall’Ottocento, esiste un’influenza russa in Iran, e che, in caso di inasprimento delle relazioni russo-americane sul fronte ucraino, il “partito russo” a Teheran potrebbe ritrovare inaspettati guizzi di vitalità.
La seconda osservazione riguarda i palestinesi. Lo “storico” accordo tra OLP e Hamas riporta indietro l’orologio di qualche decennio. La retorica dell’unità palestinese non regge di fronte alla storia stessa di questo movimento: da sempre diviso in frazioni rivali, legate inestricabilmente a questa o quella capitale mediorientale. L’OLP è stato per decenni l’involucro all’interno del quale i paesi che puntavano all’egemonia regionale (di volta in volta, l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Giordania, l’Irak, l’Iran) si facevano una guerra per procura sulla pelle dei rifugiati palestinesi. Se questi sono l’ultima popolazione del dopoguerra a vivere ancora in campi profughi è perché il Cairo, Amman, Riyadh etc. hanno voluto tenere aperta la piaga, da usare non contro Israele, ma gli uni contro gli altri. Con il benestare degli Stati Uniti e della Russia, per i quali l’unità del Medio Oriente ha sempre costituito una minaccia strategica da evitare ad ogni costo.
La terza osservazione riguarda Israele. Alcuni anni fa, Tzipi Livni aveva messo in guardia il suo governo dal rischio di perdere l’unico alleato internazionale che gli restava: gli Stati Uniti. Da allora, la politica di Tel Aviv è stata un lungo susseguirsi di schiaffi all’alleato americano. Il calcolo strategico di Netanyahu, se calcolo strategico c’è, potrebbe riguardare la possibilità che – a medio termine – non sia Israele a “perdere” gli Stati Uniti, ma siano gli Stati Uniti a “perdere” Israele; in altri termini, che Washington sia sempre meno in grado di difendere la Stato ebraico. Quindi – potrebbe essere il ragionamento del primo ministro – Israele deve cominciare a imparare a camminare sulle proprie gambe, deve imparare a “mediorientalizzarsi”: con tutto quello che ciò che comporta in termini di urlate pubbliche, minacce, tranelli, moine e accordi sottobanco. “Mediorientalizzarsi” anche nelle forme: circondata di paesi che iscrivono la religione nella loro Costituzione, anche Israele vuole diventare un paese fondato sull’identità religiosa.
La questione della proclamazione della “ebraicità” dello Stato mette un termine a una fase storica fondata su una fantasia: che Israele fosse nata grazie al sionismo. Il movimento nazionalista ebraico chiedeva sì la nascita di una National Homeland (e non necessariamente in Palestina), ma Israele è nata grazie ad un’iniziativa sovietica appoggiata dagli Stati Uniti per cacciare le vecchie potenze coloniali, segnatamente la Gran Bretagna, dal Medio Oriente; un obbiettivo su cui USA e URSS hanno marciato d’amore e d’accordo almeno fino alla crisi di Suez del 1956.
La fine dell’URSS ha avuto due conseguenze cruciali su Israele: ha rotto la balance of power mediorientale, e ha gettato in Palestina centinaia di migliaia di ebrei russi, alterando anche la balance of power interna. Se da una parte questo flusso rompeva gli equilibri identitari esistiti fino ad allora, dall’altro gettava sul mercato un grosso contingente di manodopera ebrea a basso prezzo, che poteva prendere il posto degli arabi, interni e transfrontalieri e rendere così più religiosamente omogeneo il paese. Per garantirsi la fedeltà di questo nuovo proletariato e sottoproletariato di lingua russa, bisognava inventarsi una nuova identità. E l’invenzione di un’identità ha bisogno di due ingredienti essenziali: un mito fondatore e un nemico (o almeno una minaccia percepita come tale).
Se le cose stessero così, si capirebbe perché Israele vuole diventare uno Stato “ebreo”. E se le cose stessero così, non si capirebbe perché a Israele dovrebbe interessare la pace coi palestinesi.
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