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April 11, 2014
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Vent’anni fa, nel Rwanda in fiamme. Intervista a Fabio Pipinato, fondatore di Unimondo

Marco PontonibyMarco Pontoni
Fabio Pipinato in Rwanda

Fabio Pipinato in Rwanda

Time: 12 mins read

 

Padovano, classe '63, Fabio Pipinato, fondatore di Unimondo, nodo italiano del network internazionale di informazione OneWorld, arrivò in Rwanda nel 1993, poco prima dell'inizio del genocidio, assieme alla moglie Paola, che aspettava un bambino. Il Rwanda, ex-colonia belga, era un piccolo paese africano nel quale convivevano da secoli, in precario equilibrio, la maggioranza Hutu (popolazione autoctona di agricoltori di ceppo linguistico Bantu) e la minoranza Tutsi (scesa in queste regioni dal Nord e dedita prevalentemente alla pastorizia). In epoca coloniale i Tutsi erano considerati dagli europei – anche sulla base di teorie lombrosiane sulla diversità dell'aspetto fisico – come la classe dominante "naturale", a cui appoggiarsi per il governo della colonia. Dopo la decolonizzazione il potere era passato agli Hutu. Solo i belgi però avevano "congelato" per sempre l'appartenenza della popolazione all'una o all'altra etnia, iscrivendola nelle carte di identità distribuite ai rwandesi. In realtà, i due gruppi nel corso del tempo si erano molto mescolati, come sempre succede. L'etnia può essere un perfetto, terribile pretesto per uccidere.

Come siete arrivati nel Paese delle mille colline?

Eravamo due giovani fisioterapisti, ci eravamo conosciuti nella Repubblica Centrafricana. Siamo arrivati all'ospedale di Rilima, a circa 60 chilometri dalla capitale Kigali, e vicino al confine con il Burundi, per lavorare ad un programma dell'associazione Medicus Mundi e della Fondazione Tavini di Brescia. In collaborazione con il Ministero della salute rwandese abbiamo aperto lì la prima scuola di fisioterapia del paese. Il centro esiste anche oggi e funziona benissimo (vedi video qui sotto). Tra l'altro a Rilima sta nascendo il nuovo aeroporto internazionale.

Che situazione trovaste in Rwanda all'inizio?

C'era la guerra, ma nel Nord, fra i governativi e il Fpr, Fronte Patriottico Rwandese, che rappresentava la minoranza Tutsi e aveva le sue basi in Uganda. Da noi la guerra non si sentiva molto. Certo, col senno di poi, alcune cose mi avevano stupito. Ad esempio che la sede di Radio Mille Colline, a Kigali, fosse così ben presidiata dai militari. Poi ho capito: durante i giorni del genocidio la radio ha svolto un ruolo fondamentale nell'aizzare la gente a uccidere gli "scarafaggi", i Tutsi. Ma i primi sentori si sono avuti in ottobre, quando nel confinante Burundi è stato ucciso il presidente Ndandaye. Successivamente l'esercito burundese, controllato dai Tutsi, si scatenò sugli Hutu. Da noi si riversarono migliaia di profughi, che vennero ospitati in campi gestiti appena oltre la frontiera dalla Croce Rossa e da Medici senza Frontiere. Io divenni un responsabile della logistica. Lì ho visto che nei campi profughi in genere i benestanti morivano prima. I poveri riuscivano più facilmente a sopravvivere. Le pulizie etniche servono anche a sterminare la classe intellettuale. Vidi i primi morti, nel fiume che poi si getta nel lago Vittoria: alcuni erano stati crocifissi.

Capivate che si stava preparando un genocidio?

Si capiva che dietro a tutto c'era il conflitto fra la fazione anglofona e quella francofona, un conflitto non astratto, ma molto concreto, perché tutta la regione è ricchissima di giacimenti minerari. I leader Tutsi erano appoggiati dall'ala anglofona, Kagame, l'attuale presidente del Rwanda, ha studiato nelle scuole militari USA, come pure Museveni, il suo alleato ugandese. Il governo a maggioranza Hutu era sostenuto dalla Francia, che infatti dopo il genocidio è intervenuta per proteggere i genocidiari e consentire loro di rifugiarsi in Congo – assieme a milioni di profughi – quando le sorti della guerra hanno cominciato a volgere a loro sfavore. Il genocidio è stato preparato. Eppure, uno dei capi degli Interahamwe, la milizia responsabile assieme all'esercito regolare dello sterminio di quasi un milione di Tutsi e Hutu "moderati", era un mio collega fisioterapista, aveva lavorato con me e io non mi ero accorto di nulla. Alla fine denunciò la presenza dei Tutsi che avevamo nascosto in una stanza segreta dell'ospedale. Poi capì che le cose si mettevano male e riuscì a scappare. Oggi vive a Bruxelles.

Come si è arrivati a quel tragico 6 aprile?

Già a febbraio la situazione stava precipitando. Una mattina, dovevo accompagnare mia suocera, che era venuta a trovarci dall'Italia, all'aeroporto, dove avrebbe preso il volo di rientro. Gli Zamu, le guardie notturne dell'ospedale, ci dissero di non andare in città. Perché? Ci fecero ascoltare la radio: trasmetteva Mozart. Evidentemente era un segnale che qualcosa di strano era successo. Decidemmo di andare lo stesso, anche perché altrimenti mia suocera rischiava di rimanere lì un altro mese… Per strada trovammo i banditi: ti fermavano brandendo una sacca di sangue infetto e delle siringhe, era la loro arma. Come mi avevano detto di fare al corso che avevo frequentato prima di partire, accelerai, e loro si scansarono all'ultimo istante. Poco dopo vedemmo una macchina della World Bank rovesciata a lato della strada: evidentemente non avevano accelerato abbastanza.

Immagino vi sarete pentiti di non avere ascoltato gli Zamu.

Sì, eravamo ancora dei "pivelli". Arrivammo in qualche modo in città e trovammo il caos. Vidi i primi Tutsi picchiati dai militari coi calci dei fucili. Decidemmo di rifugiarci dai Salesiani, dove venimmo a sapere che quella mattina erano stati uccisi due ministri. Rimanemmo dai salesiani tre giorni, chiusi dentro la sede. Poi arrivò un contingente di caschi blu belgi, assieme al nostro console Costa, bravissimo, uno che ha salvato molta gente durante il genocidio (si stima circa 2000. Ottenne una medaglia d'oro al valor civile dal Governo italiano e nel 2008 gli è stato dedicato un albero nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova, ndr).

Ci portarono all'aeroporto dove mia suocera si imbarcò, senza check-in né niente, non c'era neanche la luce. Quindi a noi ci portarono in una residenza ONU in attesa che si calmassero le acque. Era scesa la notte, fu un viaggio terribile, come quello raccontato nel film Hotel Rwanda. Si passava sopra i cadaveri, mentre sul tetto della jeep i caschi blu facevano fuoco con gli Mg per aprirsi la strada. In seguito quei ragazzi vennero "promossi" guardie del corpo del primo ministro Agathe Uwilingiyimana, donna e politico formidabile. Subito dopo l'inizio del genocidio vennero circondati dai genocidiari. Chiesero l'autorizzazione all'ONU di usare le armi: negata. Vennero uccisi tutti e 11, e venne uccisa anche il primo ministro Agathe.

L'ONU lasciò questo affronto impunito. E del resto, non fu questa l'unica circostanza in cui non fece nulla.

Fu la prima grande delegittimazione dei caschi blu, poi sarebbe arrivata quella di Srebrenica, con in caschi blu olandesi tenuti in ostaggio dai miliziani serbo-bosniaci. L'episodio produsse grande scalpore in Belgio, che decise di ritirare quasi tutti i suoi uomini. Il generale canadese Roméo Dallaire, oggi senatore, aveva chiesto al Palazzo di Vetro 5.000 caschi blu. Lui era lì, conosceva la situazione. Secondo lui sarebbero stati sufficienti per evitare il dilagare della pulizia etnica, creando delle enclaves protette all'interno del paese. Ma non venne ascoltato.

Cosa ricorda dell'inizio delle stragi?

Per noi il 6 aprile iniziò come una giornata "normale", avevamo in agenda dei bambini da operare, tendine d'Achille, dei casi di polio, cose così. Io dovevo andare ai campi profughi, come ogni mattina, stavo riempiendo le cisterne del camion di acqua e di nuovo, come due mesi prima, gli Zamu mi dissero di lasciar perdere. Poi sentimmo che era stato abbattuto l'aereo del presidente  Habyarimana, atto di cui vennero incolpati i Tutsi. Questo diede il via alle stragi, che in precedenza erano state accuratamente pianificate, con la compilazione delle liste delle persone da eliminare, collina per collina, villaggio per villaggio, con la distribuzioni di machete e fucili… Non ho mai creduto che ad abbattere l'aereo siano stati i Tutsi. L'aeroporto di Kigali era sempre stato ben presidiato dall'esercito rwandese. Il presidente tornava dalla Tanzania dove aveva firmato degli accordi di pace, con lui c'era anche il presidente del Burundi. L'attentato fu il pretesto per avviare la soluzione finale. In ospedale cominciarono ad arrivare i primi feriti e adesso dovevamo suturare, cucire le ferite di arma bianca, medicare.

Quindi vi siete ritrovati chiusi dentro all'ospedale?

ospedale

L’ospedale di Rilima nel 1994

Sì. Attorno all'albergo c'era solo una rete, all'inizio, quando ero arrivato, l'avevo criticata perché a mio giudizio ci "isolava" dall'esterno, adesso avrei voluto ci fosse un muro. Veramente avrei voluto che avessimo soldi abbastanza per assoldare qualcuno che ci difendesse, anche dei mercenari, chiunque. Da fuori ci minacciavano continuamente, volevano entrare per cercare i Tutsi. Noi dicevamo che quello era territorio internazionale, anche se ovviamente non era vero, e il sindaco, un Hutu, molto bravo, ci aiutò a tenere fuori gli assassini. Ci ricattavano. Ci chiesero un camion, perché erano stanchi di andare a piedi ad uccidere la gente, il loro "lavoro", lo chiamavano. E alla fine gliel'abbiamo dovuto dare, ma avevamo quasi svuotato il serbatoio. Cominciammo ad osservare le regole che ci avevano insegnato ai corsi di formazione: dormire assieme, fare turni di guardia, dire sempre che eravamo pieni di armi. Imparai a fabbricare molotov con la benzina. Divenni bravissimo a fare le molotov. Io, un pacifista!

Quanti eravate lì dentro?

Circa 150 persone, di cui una ventina europei, noi italiani, i medici belgi e francesi. C'erano anche alcuni africani di paesi vicini come l'allora Zaire. Ad un certo punto venimmo a sapere che a Kigali avevano ucciso anche dei bianchi. Una sera che montavo di guardia con il personale rwandese, il fabbro mi chiese: ma tu avresti il coraggio di uccidere? Io no, risposi. Mi disse che allora era meglio che andassi a dormire. Paola, mia moglie, che era incinta, non è mai uscita fin quando le teste di cuoio belghe non sono venute a prenderci. Io invece sono andato più volte in città, portando una scacciacani con me. Me lo chiedevano anche persone dell'ospedale, mi chiedevano di andare a prendere i loro familiari, di cercare di portarli dentro. Una volta sono uscito di notte, per andare a prendere un prete Tutsi, che era in pericolo, padre Marcel. Ma non voleva lasciare la chiesa, nelle chiese la gente cercava rifugio. Una sera, quando stavano per arrivare i genocidiari, si ubriacò pesantemente. Ne ebbero pietà: lo videro steso a terra che rantolava e lo lasciarono lì. Il giorno dopo, passata la sbornia, finalmente si rifugiò da noi.

Ma anche all'ospedale non è che fossimo in salvo. Tant'è che una notte il cuoco è scappato. Ha abbandonato i vestiti perché di notte il nero della pelle non si vede. Pensava che prima o poi sarebbero entrati i genocidiari. Non l'abbiamo più ritrovato. Spesso gli Interahamwe e le Far usavano anche i cani per stanare le persone che si rifugiavano nei canneti.

Ci sono state divisioni all'interno dell'ospedale?

Sì. Dopo un po' gli Hutu si sono divisi dai Tutsi. Non tutti erano d'accordo. L'assistente sociale diceva che bisognava rimanere uniti. E una gli ha risposto: "Così poi ammazzano noi e voi". Così abbiamo nascosto un certo numero di Tutsi all'insaputa di tutti. Qualcuno la notte usciva di nascosto, si nascondeva all'esterno. La logica della pulizia etnica è spietata. Era già successo in Burundi. Chi non prendeva le distanze, chi non accettava la logica della separazione etnica, veniva ucciso. È per questo che sono morti anche tanti Hutu "moderati", come poi sono stati definiti.

Come si uccideva, in quei giorni? Cos'è che ha visto?

lapideCome si sa, gli Interahamwe uccidevano con il machete ma per ogni squadra c'era sempre qualcuno armato anche di fucile. Spesso c'era una sinistra simbologia dell'uccisione. Io ero allenatore della squadra di basket del liceo cittadino, composta quasi tutta da Tutsi, perché erano più alti. Vennero uccisi tutti, e seppelliti con la mano fuori da terra. La mano che andava a canestro. Il figlio del macellaio? Infilato in uno spiedo. Dei crocifissi ho già detto, quelli erano Hutu, perlopiù cattolici, con la vittoria dell'anglofonia alla fine sono arrivate le chiese protestanti. I corpi dei Tutsi venivano gettati nel fiume che porta al lago Vittoria, da cui nasce un affluente del Nilo. In questo modo, li "rispedivano a casa", nelle regioni del Corno d'Africa da cui pare provengano i Tutsi. Ho visto le cose peggiori. Bambini che denunciavano agli assassini i loro coetanei nascosti, come se fosse un gioco. C'era una ebbrezza terribile, le persone in strada gridavano "libertà, libertà!". Un professore del liceo, che conoscevo bene, mi disse, anzi, me lo urlò in faccia: " È la nostra rivoluzione francese". Il che tra l'altro dimostra come in quelle scuole si studiasse più la storia europea che quella africana. Il preside, che era un Tutsi, fu una delle vittime.

La cosa rimasta più impressa?

Intanto, che ci si abitua a tutto. Alla paura, alla stanchezza. Una notte tirarono una bomba sul muro, noi dormivamo dall'altra parte, ce ne siamo accorti al mattino, ci siamo svegliati tutti impolverati. Ci si abitua all'impotenza. Ci dicevano di non tentare di mediare, del resto non avevamo grandi strumenti per farlo. Potevamo offrire qualche birra, ma poi? Con l'alcol si eccitavano ancora di più, e infatti all'interno dell'ospedale lo facemmo sparire. Ricordo che ad un certo punto non si sentivano più gli uccelli cantare. Dopo un po' di giorni con spari ed esplosioni gli uccelli scompaiono.

Come avete fatto a non perdere la testa?

Ad un certo punto successe una cosa inaspettata: il 10 aprile, credo, ci telefonò il ministro Beniamino Andreatta. Credo sia stato uno dei suoi ultimi atti perché poi è andato al governo Berlusconi e il ministro degli esteri è cambiato. Andreatta ci disse di stare tranquilli, che ci avrebbero tirati fuori, che erano in corso trattative. Gli africani ci dicevano che i belgi sarebbero venuti a prenderci, ma solo ai noi bianchi, noi cercavamo di rassicurarli. Quelli dello Zaire insistevano, lo avevano già visto nel Katanga: "A noi ci lasceranno qua". E poi le teste di cuoio arrivarono, finalmente. Facemmo festa quando entrarono. Ma ricevettero subito un ordine, dall'alto: solo i bianchi dovevano essere portati in salvo.

Così avete dovuto abbandonare i rwandesi a loro stessi?

C'è stato un lungo braccio di ferro, un militare di fronte al mio tentativo di nascondere il fabbro nel bagagliaio mi ha detto: "Vuoi farci uccidere tutti?". Così alla fine ci siamo separati. È stato un momento terribile. I Tutsi chiedevano ai militari belgi di mitragliarli, sarebbe stata una morte più pietosa che finire in mano agli Interahamwe. Il vero apartheid. Bianchi sì, neri no, neanche gli zairesi che in fondo con il conflitto in corso in Rwanda non c'entravano nulla. Lungo la strada le camionette venivano accerchiate, la gente, con i machete in mano, gridava attraverso i vetri, "dateci gli scarafaggi". Alla fine arrivammo all'aeroporto. Nel decollare, vedemmo sotto di noi il Rwanda in fiamme, le capanne che bruciavano ovunque. Una cosa che mi colpi è che nell'aereo c'erano anche dei cani. Cani sì, uomini no. Ma la cosa non finisce qui. Facemmo scalo a Nairobi, e poi ci portarono a Bruxelles. Al nostro arrivo trovammo tutta la stampa, eravamo uno dei primi gruppi di europei ad aver lasciato il Rwanda dopo l'inizio del genocidio. Ad attenderci c'era il ministro belga, ma anche il nostro console. Il console gli disse: "Non avete rispettato i patti. Avevate promesso che avreste sgomberato tutto l'ospedale". Il ministro si infuriò, disse che eravamo i soliti italiani… Il console lo guardò dritto negli occhi e in francese gli rispose: "Io non sono italiano. Sono siciliano". Sia come sia, il giorno seguente mandarono una task force. L’esercito era già entrato. Per fortuna il sindaco aveva le sue guardie ed era riuscito a temporeggiare. Ma Pascal, il fisioterapista, ha spifferato dove si nascondevano i Tutsi. Uno è stato ucciso.

Però questa tutto sommato è una storia a lieto fine, giusto?

Sì, è una delle tre, quattro storie a lieto fine del genocidio, come quella dell'hotel Mille colline. Attorno all'ospedale di Rilima vennero uccise circa 2.000 persone. Quelle rifugiate dentro all'ospedale si salvarono quasi tutte. Le persone adulte vennero portate in Belgio. I bambini andarono a Castenedolo di Brescia. In parte perché l'associazione a cui faceva capo il progetto era di lì e in parte, beh, si dice anche che ci sia stato un generoso intervento di una nota fabbrica di mine italiana… Comunque, c'è anche un piccolo aneddoto finale. Uno di quei bambini è diventato il cuoco di Balotelli.

E quel sindaco Hutu?

Per lui non è una storia a lieto fine. Venne ucciso tempo dopo in un campo profughi in Congo, uno di quelli dove si rifugiarono la gran parte degli Hutu, assieme ai vertici del vecchio regime, dopo la vittoria dei Tutsi del FPR, che pose fine al genocidio. Pagò il fatto di non aver accettato la logica della pulizia etnica. La faida è andata avanti, in ogni parte del mondo, va avanti anche oggi, anche in Italia, ognuno raccoglie fondi per la sua causa.

 

Dopo la vittoria del FPR il Rwanda è stato governato, fino ad oggi, dal presidente Paul Kagame, un Tutsi che ha cercato di estirpare dal Rwanda la logica della distinzione fra Hutu eTutsi ("siamo tutti rwandesi"). Qualcuno lo giudica un leader degno di ammirazione, qualcun altro (fra cui la Francia e una parte della stessa chiesa cattolica) un dittatore. La pace nella regione dei Grandi Laghi comunque non è arrivata. Il nuovo Rwanda ha partecipato successivamente, assieme all'Uganda e a molti altri stati confinanti, alla guerra del Congo-Zaire, che ha portato alla caduta del regime di Mobutu e di fatto alla spartizione delle risorse di quel gigantesco paese, oltre a causare milioni di morti.

 

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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