All’appena concluso Congresso nazionale del popolo cinese è sperabile siano circolati i dati pubblicati in Proceedings of the National Academy of Sciences da un gruppo di ricercatori statunitensi britannici e cinesi. Da noi possono sorprendere solo i beoti che imperterriti proseguono la grande sbronza del consumismo, senza curarsi dei danni e delle vittime che si accumulano. Nel gruppo dirigente cinese, va a capire.
Lo scorso decennio l’allarme ONU avvertì, senza apprezzabili conseguenze nei comportamenti di imprese e stati, che l’enorme bolla di inquinamento generata dallo sviluppo economico asiatico, in particolare cinese, la cosiddetta ABC, Asian Brown Cloud, sarebbe presto entrata nello spazio statunitense ed europeo, contribuendo ad alterare in termini globali l’equilibrio climatico e la qualità dell’aria. Il Palazzo di vetro sottolineava come gli effetti perniciosi della nube giallo-marrone alta tre chilometri di cenere e fuliggini, particelle tossiche, aerosol, sterchi spray, causa della morte di centinaia di migliaia di persone in Pakistan, Cina, Sri Lanka, Indonesia, Afghanistan, Giappone, avrebbero aggredito Europa e Stati Uniti. La nube, che scivola sulle correnti d'aria ed è refrattaria ai venti, costringe da anni gli aerei che sorvolano l’Asia a far crociera ad altissime quote.
A chi le visita, le megalopoli asiatiche appaiono perennemente immerse in umidori dorati tinti di carminio, espressione di calore misto a residui di piombo, monossido di carbonio, anidrite solforosa e ossido di azoto. E’ particolarmente vero in Cina, e Pechino sta peggio della media, perché confina con il deserto del Gobi: vive asserragliata in una particolarissima caligine industriale mista a sabbia, così spessa da ispirare alle autorità l’idea di trasmettere, in piazza Tienanmen, i filmati del sole che sorge e tramonta. Nei giorni peggiori, i sensori hanno rilevato valore inquinante 755, doppio di quello ritenuto serio pericolo per la salute umana, tra 300 e 500.
Dall’Asia arrivano sempre più piogge acide e calori monsonici che fanno sperimentare il binomio inondazioni-siccità anche dove risultano ignoti a memoria d’uomo. Vi è nemesi nel fenomeno che sta colpendo un impreparato, non certo sorpreso, Occidente. Il micidiale ultimo ritrovato in esportazione dalla Cina, l’inquinamento, è in larga parte opera degli stabilimenti smokestack delle multinazionali che dal mondo industrializzato sono stati trasferiti in un paese così bisognoso di sviluppo da accettarli senza regole e controlli. Il recente allarme, riportato anche dal New York Times, dice che i gas delle industrie cinesi attraversano il Pacifico e aggrediscono aria e acqua della costa occidentale statunitense. Sono in particolare monossido di carbonio e ossido di idrogeno, guidati dai venti westerlies, né mancano “polveri, ozono e frammenti di carbone, che vanno ad accumularsi nelle valli e nelle acque degli stati dell’ovest” generando asma, tumori, cardiopatie.
Deutsche Bank afferma che se la Cina manterrà i ritmi attuali di emissioni auto e di uso del carbone, il livello di inquinamento peggiorerà del 70% entro il 2025, mentre è già oltre i limiti di sopportazione umana il livello di polveri sottili. L’aria figura come la quarta causa di morte in Cina, dopo cattiva alimentazione, pressione alta e fumo: elaborando dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, si conclude che il 40% delle morti da inquinamento del pianeta si verifichino in Cina. L’espansione della nube tossica asiatica negli Stati Uniti e in Europa sta generando fenomeni non dissimili in zone distanti migliaia di chilometri: occorre mobilitarsi per impedire che regimi totalitari uccidano anche fuori dal loro intoccabile recinto di potere.