Yingluck Shinawatra, primo ministro ad interim della Thailandia, si trovava oggi nel nord del paese, roccaforte dei suoi sostenitori, lontana dagli schiamazzi dei manifestanti anti-governativi a Bangkok, mentre i suoi legali la rappresentavano nella capitale davanti alle accuse della Commissione Nazionale Anti-Corruzione.
La premier è accusata d’esser venuta meno al suo dovere di controllo contro le pratiche di corruzione verificatesi nell’ambito del programma di acquisto del riso dei contadini ad un prezzo fisso e superiore a quello del mercato. Una pratica messa in atto dal suo esecutivo, che i suoi detrattori giudicano populista. Se riconosciuta colpevole, sarà costretta alle dimissioni e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. A partire da oggi, ha tempo fino al 14 marzo (con possibilità di estensione) per presentare tutte le prove e le documentazioni che potrebbero scagionarla.
Questo non è il solo caso della Commissione Anti-Corruzione contro Yingluck e i suoi membri di partito; altri 15 sono in corso d’indagine. Secondo la premier, che ha negato le accuse rivoltegli, la commissione sarebbe parziale e faziosa nei suoi confronti.
Ieri, in segno di protesta, delle “camicie rosse”, sostenitrici di Yingluck, avevano bloccato con delle catene l’entrata della Commissione Anti-corruzione. Allo stesso modo, nelle proteste degli ultimi mesi, le “camicie gialle”, opposte al partito degli Shinawatra, avevano chiuso l’accesso ai palazzi governativi per spingere il primo ministro alle dimissioni.
Queste immagini di blocco, di stallo e di chiusura a ogni negoziazione sembrano purtroppo descrivere bene l’impasse nella quale si è cacciata ancora una volta la Thailandia, presa tra le sue due anime, quelle di una classe medio-alta urbana da un lato e di una popolazione rurale dall’altro.
Si tratterebbe, secondo alcuni, di una lotta di classe, in cui i “ricchi” vogliono riprendersi il potere che gli Shinawatra, il primo ministro Yingluck e suo fratello ex-premier Thaksin, hanno messo nelle mani dei “poveri”. Solo che questo potere la fascia rurale e povera ce l’ha avuto solo come promessa di lauti pagamenti per il loro riso, promessa che è stata tristemente disattesa. Molti agricoltori sono scesi in strada nelle ultime settimane per reclamare i loro compensi.
Dal canto loro, i manifestanti anti-governativi dicono di voler lottare contro la corruzione, il populismo e gli abusi di potere che hanno segnato i governi degli Shinawatra. Ma bisogna riconoscere che in Thailandia questi “vizietti” sembrano andare ben al di là di un solo partito.
Nell’indice 2013 del livello percepito di corruzione, realizzato ogni anno dall’organizzazione internazionale Transparency International, la Thailandia è al 102esimo posto su 177 paesi. Una caduta rispetto all’anno precedente, in cui si trovava all’88esimo. 37% dei thailandesi interpellati da Transparency International, hanno ammesso d’aver pagato una mazzetta alla polizia nel corso dell’ultimo anno. La polizia è infatti una delle istituzioni più corrotte in Thailandia secondo la maggioranza degli intervistati, il 71%. Seguono in ordine: i partiti politici (68%), i funzionari pubblici (58%), i parlamentari (45%), il mondo del business (37%) e il settore dell’educazione (32%).
Ma tanti intervistati ammettono anche che i cittadini possono fare molto per la lotta contro la corruzione. Eh sì, perché a questi livelli si tratta di una vera e propria cultura della corruzione e del nepotismo, che persiste e si sviluppa grazie alla partecipazione di tutti i membri della società. Secondo un sondaggio di giugno 2012, 63,4% dei thailandesi dichiara d’essere disposto ad accettare un governo corrotto a condizione di poterne trarre beneficio.
È contro questo tipo di mentalità che si propone di lottare la Rete Giovanile Contro la Corruzione, sponsorizzata dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che cerca di sensibilizzare i giovani thailandesi alle conseguenze negative della corruzione.
È un’azione capillare e paziente di rieducazione a una politica corretta e non violenta di cui hanno bisogno i cittadini della Thailandia, per potersi svincolare da questo gioco delle parti in cui sono stati presi, che più che una lotta di classe sembra un balletto politico, in cui anche i “poveri” hanno al loro capo degli straricchi (le fortune degli Shinawatra non si contano sulle dita di una mano).
Un balletto che ha già provocato 21 morti e più di 700 feriti. Gli ultimi, il fine settimana scorso, sono stati tre bambini, tra i quattro e i sei anni, che hanno perso la vita solo perché hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel mezzo di una manifestazione al momento sbagliato.
Alcuni giornali nazionali denunciano una spirale dell’odio e della violenza tra camicie rosse e gialle che, se non fermata in tempo, potrebbe portare ad altri, numerosi morti.
Anche le elezioni del 2 febbraio scorso non hanno aiutato a sciogliere lo stallo. Nonostante lo stato già avanzato delle manifestazioni, Yingluck Shinawatra ha voluto tenerle lo stesso, ribadendo il fatto che il suo governo è legittimo in quanto eletto. Il problema è che le elezioni non sono percepite come sistema legittimo da una parte della popolazione, a causa appunto della corruzione diffusa di cui sopra. Risultato: i manifestanti hanno fatto saltare le urne in cinque seggi elettorali e non si è raggiunto il quorum. Le votazioni nei seggi mancanti sono rinviate ad aprile.
L'unica possibile via d'uscita dalla paralisi a questo punto sembra essere il compromesso tra le parti, tramite i loro leader: Yingluck da un parte e Suthep Thaugsuban, l'ex-democratico che ha preso la guida delle manifestazioni, dall’altra. E compromesso vuol dire che nessuno dei due gruppi avrà tutto quello che chiede.
Ieri anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è dichiarato sempre più preoccupato per la crisi politica in Thailandia e ha esortato le parti in gioco ad aprire la via del dialogo inclusivo e delle riforme.