Nel corso degli anni 2000, l’Australia ha trovato e messo in pratica la sua risposta all’annoso problema dell’immigrazione: rinviare indietro i barconi di migranti o trasferirli in centri di detenzione sul territorio australiano o, meglio, di altri stati del Pacifico, più piccoli, meno potenti e soprattutto desiderosi di ottenere in ritorno degli aiuti economici.

Una protesta a Melbourne contro la politica dei respingimenti
Il risultato di tali pratiche è stato la violazione al contempo di diritti umani e trattati internazionali, che ha sollevato numerose critiche di esponenti politici interni, gruppi di assistenza ai migranti e organi delle Nazioni Unite.
La questione è stata riportata all’attenzione dei media da dei disordini che hanno avuto luogo lunedì in un centro di detenzione per richiedenti asilo sull’isola di Manus, provocando un morto e 77 feriti.
Manus è parte della Papua Nuova Guinea (PNG), uno dei due stati a cui l’Australia appalta la detenzione dei suoi richiedenti asilo. L’altro è lo stato di Nauru, composto da una sola minuscola isola nel mezzo del Pacifico, di 21 chilometri quadrati e 10 000 abitanti. Canberra possiede anche 25 centri di detenzione per migranti sul suo territorio, di cui quattro sull’isola del Natale, nell’Oceano Indiano, più vicina all’Indonesia che all’Australia.
Il sistema australiano funziona così: dei migranti arrivano su dei barconi dall’Indonesia. Hanno pagato somme considerevoli a dei trafficanti di esseri umani per poter effettuare quel viaggio della speranza. Arrivano dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka, dall’Iran, dal Pakistan, dall’Iraq: questi, in ordine, i cinque paesi d’origine della maggioranza dei profughi che tentano l’approdo in Australia.
Tentano, ma le probabilità di riuscita sono minime. La loro imbarcazione verrà rinviata verso l’Indonesia, oppure dovranno passare dei mesi o alle volte più di un anno in detenzione in Australia, sull’isola di Manus o di Nauru, nell’attesa che la loro domanda d’asilo venga trattata. I più fortunati sono in “detenzione nella comunità”, ovvero assegnati ad una residenza precisa ma con relativa libertà di movimento; i meno fortunati sono in veri e propri centri di detenzione, da cui non possono uscire.
Secondo la Commissione Australiana dei diritti umani, 6 579 richiedenti asilo si trovavano in strutture di detenzione in Australia a settembre 2013. Tra loro anche 1 428 bambini dell’età media di 10 anni. Il numero dei richiedenti asilo a Nauru e Manus ammontava invece a più di 1 200, ovvero almeno un sesto della totalità dei profughi detenuti.
Il trasferimento dei migranti su Manus e Nauru fu inaugurato nel 2001 sotto il nome di “Soluzione del Pacifico”. Criticato fortemente dall’ONU e interrotto nel 2008, venne poi ripreso nel 2012. L’estate scorsa dei nuovi accordi per la delega della detenzione e della gestione dei migranti sono stati firmati con la PNG e Nauru. L’aiuto finanziario offerto da Canberra in cambio di questi servizi è notevole: per l’isola di Nauru ammonta al 40% del suo PIL annuo.
A novembre l’agenzia ONU per i rifugiati si è detta “profondamente scossa” dalle condizioni di detenzione a Nauru e Manus, che “non solo non rispettano gli standard internazionali, ma hanno un impatto molto forte sugli uomini, le donne e i bambini che vi risiedono.”
La legge australiana non pone nessun limite alla durata della detenzione. La permanenza nella prigionia ingiustificata e nell’incertezza del proprio futuro è per molti causa di problemi mentali: depressione, ansia, disturbi post-traumatici e del sonno, autolesionismo e tendenze suicide.
Tra il 2012 e il 2013, sono stati registrati in totale 846 tentativi di autolesionismo: più di uno al giorno. Tra Luglio 2010 e Giugno 2013 dodici migranti sono morti in detenzione; in almeno sei casi si è trattato di suicidio.
I casi peggiori sono quelli dei profughi la cui domanda d’asilo viene rifiutata perché si ritiene che potrebbero rappresentare una minaccia per l’Australia, ma che al contempo non possono essere rinviati nel paese d’origine perché vi si troverebbero a rischio. In questi casi la legge australiana prevede che restino in detenzione fino a che non si trovi un terzo paese disposto ad accoglierli, una possibilità quantomai remota. Il risultato è che questi migranti sono spesso costretti alla prigionia per anni, pur non essendo accusati formalmente di nulla. Un trattamento definito dall’ONU “crudele, disumano e degradante”.
In un recente rapporto della Commissione Australiana dei diritti umani viene citato il caso di una coppia con tre figli, di cui uno nato nel centro di detenzione, liberati l’estate scorsa dopo aver trascorso più di quattro anni in prigionia perché ritenuti una potenziale minaccia per l’Australia.
L’ONU ha segnalato più volte come tali condizioni di detenzione e la pratica di rinvio delle navi costituiscano delle violazioni di trattati internazionali a cui l’Australia aderisce, sulla carta. Primo fra tutti la Convenzione di Ginevra del ’51 sullo statuto di rifugiato, poi la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e quella sui diritti dell’infanzia.
Le leggi internazionali lasciano all’Australia il diritto di delegare il trattamento delle domande d’asilo ad altri paesi, come la PNG e Nauru, ma Canberra resta comunque responsabile delle conseguenze di tali trasferimenti.
Il principio stesso della detenzione immediata, obbligatoria e potenzialmente illimitata nasconde un’incoerenza di fondo. Nel momento in cui una persona arriva in un paese straniero e presenta la sua domanda d’asilo, essa si trova in una situazione legale, che è quella dell’attesa del trattamento della domanda. Non ha commesso nessun crimine, non ha violato nessuna legge. La sua presenza non può quindi essere definita “illegale”, “irregolare” o “non autorizzata”.
Il sistema delle detenzioni e dei rinvii è stato giustificato dai vari governi susseguitisi in Australia come un deterrente contro ulteriori barconi della speranza. Se la sua efficacia è ancora da dimostrare, è invece certo che il mantenimento dei centri è costato ai contribuenti più di un miliardo di dollari nel solo 2011-2012. Tutto questo in un paese che, rispetto ad altri, riceve una porzione minima di profughi: nel 2012 l’Australia ha ricevuto solo il 2,2% di tutte le domande d’asilo presentate nel mondo. Per una percentuale relativamente così ridotta, davvero non si possono trovare altre soluzioni?