È morto il simbolo di tante cose. L’eroe di tante persone. Della lotta per la libertà e la fine della segregazione razziale. La lotta di una generazione di africani contro una delle pagine più brutali del colonialismo europeo. Il riscatto di un Paese, il Sud Africa, come riscatto finale di un continente intero. Democrazia, rispetto della diversità, perdono, le parole d’ordine di un uomo e di un movimento – l’African National Congress – che pure erano stati costretti a teorizzare, giustificare e praticare la violenza politica e la lotta armata. La risposta estrema ad una violenza di Stato che negava diritti, libertà e dignità di uomini sulla base del colore della pelle.
La retorica di questi giorni nasconderà la realtà di Nelson Mandela, Madiba (dal nome del suo clan di appartenenza) e di molti altri leaders dello ANC, per anni considerati “terroristi comunisti”, inseriti in liste di proscrizione. Proprio come si fa oggi con i fondamentalisti di Al-Qaida. Contraddizioni della guerra fredda, si dirà. Ma anche un dato storico che andrebbe ricordato ogni volta che il nostro snobismo occidentale ci suggerisce pagelle e giudizi affrettati sulla performance democratica dei Paesi di un continente, l’Africa, che, compatto, si era schierato al fianco della lotta anti-apartheid e della sua icona.
Vogliamo qui ricordare due tra i tanti aspetti fondamentali della parabola eroica di Madiba. La riconciliazione e il perdono furono il pilastro costituente che Madiba volle per quella nuova repubblica sudafricana da edificare sulle ceneri dell’apartheid. L’amnistia e il condono dei crimini commessi dall’ “uomo bianco” avrebbero negato giustizia alle tante vittime dell’apartheid. Usando in parte le procedure tradizionali del Sud Africa rurale, furono promosse nuove precedure per il riconoscimento pubblico delle colpe. L’incontro di vittime e carnefici, il dialogo sulle sofferenze dei primi ed il racconto senza censura delle atrocità commesse dai secondi. Imposti come dolore necessario alla ricostruzione civile delle coscienze. Uno scambio di umane sofferenze attraverso un dialogo chiamato a pacificare i cuori e le menti di un popolo diviso ed a creare una nuova cittadinanza comune. Il modello di riconciliazione del Sud Africa post-apartheid, le sue forme e le sue istituzioni, è ormai da due decenni fonte d’ispirazione di ogni processo di pace, laddove, in Africa o nel resto del mondo, ci sia da mettere fine ad una guerra.
Stessa apertura mentale e stessa ostinazione al dialogo Madiba l’aveva praticata nei momenti più delicati della transizione post-apartheid. Mostrando tutta la sua determinazione di leader visionario nel disegno ambizioso di trasformare il nemico in un partner. Un nemico davvero particolare, quell’uomo bianco che aveva umiliato ed offeso, per secoli e decenni, il suo popolo. Ma con il quale occorreva gettare le basi di un nuova convivenza. E costruirci un cammino condiviso. Disegnato in quelle due strade che si uniscono in una sola, il simbolo di una speranza al centro della bandiera sudafricana.
Aldilà dei ricordi e delle celebrazioni, la morte di Madiba ci piace pensarla come occasione preziosa per riflettere sullo stato di quel cammino verso la libertà che il leader dell’ANC non considerava mai completo. Il viaggio di un paese e di un continente. È quello che Madiba chiederebbe. Fare politica discutendo la sua morte, leggere il presente ed auspicare un futuro ancora diverso. Madiba lascia un Sud Africa che ha fatto tanti progressi. Un’economia solida, uno stato di diritto, la nascita di una classe media, infrastrutture avanzate, una potenza continentale che si fa portavoce dell’Africa sulla scena internazionale. Un ex presidente, Thabo Mbeki, il primo successore di Madiba, già mediatore nella crisi del Darfur, che è il saggio per eccellenza della politica continentale.
Ma il Sud Africa di oggi è anche quello di un presidente, quello attuale, Jacob Zuma, sfiorato da molte inchieste di corruzione, incerto interprete della politica estera sudafricana, screditata, secondo molti, dalle confuse prese di posizione sulla crisi in Libia. Negli slums di Soweto e Johannesburg ci sono poi i segni di una disoccupazione galoppante, un disagio giovanile di massa, forme estreme di povertà, degrado e marginalizzazione. Un’altro paese nel paese.
C’è anche la realtà dolorissima di una condizione, quella delle donne sudafricane, vittime, ancora oggi, una su due, di violenze sessuali mai denunciate. Temi e dolori aperti che agitano lo spettro di un tradimento dell’ANC e dei fallimento dei leaders di oggi. Alle elezioni generali della primavera 2014, parteciperanno molti nati liberi, “born free”. Giovani elettori cresciuti dopo la fine dell’apartheid e meno sensibili all’epopea dell’ANC. Il partito rivale, l’Alleanza Democratica, rischia di conquistare la città di Port Elizabeth, da poco ribattezzata Nelson Mandela Bay. Un evento che avrebbe portata storica. E sarebbe uno smacco, un colpo simbolico ai due decenni di dominio assoluto del partito campione della lotta contro la segregazione razziale.
Oltre i confini nazionali, Madiba lascia un continente che compie passi importanti sul terreno della democrazia e della pace. Che punta sulle elezioni come metodo di partecipazione e legittimazione democratica dei suoi leaders. Che si dà norme e istituzioni avanzatissime – anche più sofisticate di quelle messe in piedi nel mondo occidentale – per contrastare la piaga dei colpi di stato ed imporre la difesa dei principi costituzionali. Un continente che cerca di liberarsi dal complesso degli uomini forti e che però deve fare i conti con l’ottuagenario Robert Mugabe in Zimbabwe (90 anni a febbraio!), il dittatore di Asmara Isaias Afewerki, o le discusse dinastie dei Bongo in Congo e di Obiang Nguema in Guinea Equatoriale. Un continente che cerca con coraggio “soluzioni africane alle crisi africane”, ma che ha disperato bisogno del sostegno finanziario (e militare) degli Stati Uniti e delle ex potenze coloniali per imporre la pace in Somalia, in Mali o nella Repubblica centroafricana. Che vive nel paradosso di spese militari maggiori rispetto a quelle che destina al settore agricolo. Che vive l’abbondanza di risorse naturali come un potenziale inespresso, spesso “catturato” delle elites locali e incapace di redistribuire ricchezza. Un continente che ha ritmi di crescita straordinari, ma che non crea lavoro e opportunità per i giovani. Una massa umana insoddisfatta che, da anni, a Luanda come a Tunisi, al Cairo come a Johannesburg, scende nelle piazze del potere per chiedere lavoro e partecipazione.
L’Africa che sognava Mandela era un continente “in pace con sè stesso”. Una pace da costruire, anzitutto, sulla soluzione dei suoi conflitti. Ma anche su una nuova promessa di riscatto sociale e politico per i giovani africani. Dentro quelle coordinate di libertà e democrazia che Madiba difese nella sua nazione, in Africa e nel mondo.