Un Paese in crisi. Una nazione proletaria. Sempre più piccola. Paralizzata dai problemi giudiziari – anzi da una condanna definitiva – del leader politico della destra italiana. Quella destra che è ora “solo” un terzo del paese. Un congelamento che colpisce chi, da lontano, torna in Italia per un po' di vacanze. Le prime 5-6 pagine di ogni quotidiano, di qualsiasi orientamento politico, sono dedicate da giorni alla decadenza di Silvio Berlusconi. La sua estromissione dal Senato della Repubblica. Passaggio naturale in uno stato di diritto. Questo il tema al centro dei primi 10 minuti di ogni notiziario televisivo. Nulla o poco sulla crisi economica che continua a mordere le caviglie di un malato claudicante. Ancor meno sulla povertà che cresce, tra pezzi sempre più grandi della società italiana. In una situazione simile, parlare di politica estera, pensarla o addirittura farla, diventa proibitivo. Quando poi appare l’Europa – in quei pochi minuti rimasti di tv – al nostro presidente del consiglio sfuggono parole un pò folli. Se cade il governo, ha detto Enrico Letta, senza troppi giri di parole, sarà Bruxelles a scrivere la manovra finanziaria. Come se ai ricatti di Berlusconi si possa rispondere con altre minacce. Ed altre ricatti. O Roma o Bruxelles. O Roma o morte. Conservare al potere un governo immobile. Oppure consegnare una delega in bianco alla troika Banca centrale europea-Commissione Europea-Fondo Monetario Internazionale. Per farci scrivere la nostra finanziaria. Sarebbe l’estremo passaggio di quel commissariamento leggero dell’Italia che dura dal 2011.
Intanto, la questione siriana continua a scuotere coscienze. È grazie ad Emma Bonino che possiamo suggerire cautela ad un America confusa ed un po' stanca delle sue responsabilità. Ma c’è poco altro. Quasi nulla, purtroppo. Un esempio su tutti, la Somalia. In un esercizio di sano realismo, di valutazione dei nostri mezzi (limitati) e delle nostre priorità (poche, ma figlie di una storiche responsabilità) la Somalia poteva apparire, qualche tempo fà, un Paese sul quale avevamo il diritto di reclamare il possesso di un vantaggio “comparato”. Un ruolo anche necessario sulla base di una presenza tradizionale nella regione del Corno d’Africa. Se ne parla però poco. O quasi per niente, della Somalia. Da oltre un’anno questo Paese martoriiato cerca più insistemente la pace e spera di archiviare un ventennio di guerre. Puntando su un sistema federale che comprenda le ex colonie britanniche del Somaliland e del Puntland, da tempo autonome ed “organizzate, e il resto del paese, in parte sotto il controllo delle milizie islamiche radicali degli Al-Shabab.
Dopo un ventennio di tenebre la Somalia sta cercando di risollevarsi con fatica. Con l’aiuto dell’Unione Africana gli Al-Shabab hanno perso vigore. La Somalia è oggi un modello confuso e complesso di “nation building”. Un modello popolato da una storia di violenze. Che pure aveva trovato un periodo di governo e pacificazione grazie a quelle Corti Islamiche giunte al potere nel 2006 e troppo in fretta liquidate dall’occidente come affiliate ad Al-Qaida. Ora c’è un nuovo governo a Mogadiscio, più rappresentativo, pare, di quello che c’era prima. La corruzione resta una piaga difficile da curare. Oltre il 70% dei prelievi di denaro dalla banca centrale somala sarebbero effettuati per transazioni private. Per la gestione di consenso e clientele tra i clans. Eppure, l’economia privata cresce. Perchè ha trovato nell’anarchia la soluzione più propizia per la creazione di un reddito ancora poco condiviso.
La diaspora somala è poi tra le più dinamiche al mondo: è la potenzialità inespressa di 1miliardo di dollari di rimesse annue. La Somalia sfida teorie e studi tradizionali sulla formazione degli Stati. Per anni pensata come un “Failed State”, è ora diventata un “Fragile State”, omaggio al politically correct. In realtà, si tratta di un esperimento di vita sociale e politica tutto straordinario. Perchè uno stato centrale, appunto, “non c’è stato”. E per un bel po'. Né la sua esistenza appare necessaria a centinaia di migliaia di somali. Materiale perfetto per abbozzare, magari, un pensiero italiano per la Somalia. Perchè no, una qualche riflessione articolata (Una strategia sarebbe troppo). Ci facciamo bastare uno scarno comunicato sul sito internet della Farnesina. Un riassunto che scorre sulle pagine internet della nostra (povera) cooperazione allo sviluppo. Sulla Somalia, Roma è ormai surclassata da Londra. Il braccio della cooperazione di sviluppo di sua Maestà, il Departement for International Development (DFID), ha pubblicato, qualche settimana fa un dettagliatissimo rapporto che analizza il contesto somalo, proponendo “visions”, “results”, “delivery e resources”. Nonchè obiettivi precisi in materia di sanità, buona governance, contrasto alla povertà e alla malnutrizione.
L’Italia appare purtroppo marginale, quasi sepolta viva dall’attivismo del governo inglese, che da tempo ha messo gli occhi su giacimenti di gas e petrolio ancora da scoprire. Mentre la Gran Bretagna si attiva per facilitare, con poca trasparenza e molta opacità, la conclusione di accordi per la gestione delle risorse del Paese, l’Italia balbetta. Annega nella sua crisi. Pochi giorni fa si è svolta a Bruxelles una nuova conferenza internazionale sulla Somalia. La Comunità Internazionale ha promesso una nuova ondata di aiuti per finanziare la stabilizzazione del Paese. L’Italia c’era, c’è, ma non si sente. A New York, tra qualche giorno, la nostra diplomazia presiederà una nuova riunione dei Paesi della regione. Molte nostre associazioni non governative operano in Somalia. Con generosità e pochi quattrini. Ma non basta.
L’assenza italiana è fatta anche di simboli. È nel silenzio della nostra lingua. Di quell’italiano un tempo scritto, parlato e amato da una foltissima generazione di somali. Oggi un suono estraneo a tutti i giovani somali al di sotto dei trentanni. Cioè alla stragrande maggioranza della popolazione. Paghiamo ancora le nostre scelte sbagliate. Le nostre ambigue posizioni su Siad Barre negli anni ’80 (quello che fece stragi nel nord del Paese). Ma paghiamo soprattutto l’incertezza della nostra transizione interna che dura da oltre ventanni. La triste contraddizione di un Paese instabile che vuol contribuire alla stabilità altrui. È il nostro caos che ci priva di un ruolo attivo in una di quelle poche aree del mondo in cui potevamo ancora fare politica estera. E contare. Almeno un pò.