Nonostante le proteste in piazza e le critiche dell’opposizione in parlamento, giovedì 8 agosto la Camera thailandese ha dato una prima approvazione a un disegno di legge sull’amnistia per coloro che hanno preso parte alle violenze politiche che hanno scosso a più riprese il paese sin dal 2006.
Benché il testo preveda il perdono unicamente per i partecipanti alle proteste e non per i leader dei movimenti politici, l’opposizione teme che esso sia un primo passo verso una più ampia amnistia che aprirebbe la strada al ritorno in patria dell’ex primo ministro in esilio Thaksin Shinawatra.
Magnate delle telecomunicazioni e premier per cinque anni di seguito, Thaksin abbandona la carica e il paese nel 2006 quando un colpo di stato militare prende il potere e mette al bando il suo partito “Thai Rak Thai”.
Ma quando vengono indette nuove elezioni l’anno seguente, è ancora un partito vicino all’ex leader a vincere, causando le proteste di migliaia di manifestanti dell’ ’Alleanza del Popolo per la Democrazia’, le cosiddette ‘camicie gialle’, opposte a Thaksin e sostenitrici del potere monarchico e militare, che a fine 2008 occupano i principali aeroporti del paese.
Nello stesso anno, Thaksin è condannato in contumacia per corruzione a due anni di prigione. Nonostante ciò, continua ad avere molti sostenitori, principalmente tra i ceti rurali e urbani meno abbienti, che scendono in piazza quando l’opposizione anti-Thaksin passa al potere.
È nel 2010 che il bilancio delle vittime delle manifestazioni si fa particolarmente pesante. Più di 90 persone – tra loro il giornalista italiano Fabio Polenghi – trovano la morte negli scontri tra le forze dell’ordine e le ‘camicie rosse’ pro-Thaksin, che chiedono le dimissioni dell’allora primo ministro Abhisit Vejjajiva.
Mentre Abhisit è stato messo sotto accusa per aver ordinato la dura repressione del 2010, la condanna che pesa su Thaksin non riguarda invece il contesto delle violenze politiche cui fa riferimento il disegno di legge in discussione. Il testo andrebbe quindi modificato perché il leader in esilio possa beneficiare dell’amnistia.
D’altra parte, stando ai suoi oppositori, Thaksin sarebbe in grado di muovere le fila del gioco politico, in piazza e in parlamento, pur senza trovarsi in patria, tramite sua sorella Yingluck Shinawatra, primo ministro in carica dal 2011.
Nelle dichiarazioni dei suoi propugnatori, l’amnistia dovrebbe costituire un primo passo verso la riconciliazione nazionale tra le due anime della Thailandia.
Essa rischierebbe però di rimettere in libertà anche coloro che si sono macchiati di crimini gravi durante i disordini politici, come è stato sottolineato con preoccupazione dalle Nazioni Unite e dall’ONG Human Rights Watch.
Ma l’amnistia ha ancora una lunga strada da fare prima di diventare legge. Dovrà infatti essere sottoposta all’attenzione di un apposito comitato parlamentare, prima di passare nuovamente alla Camera e al Senato per approvazione.
Il lungo processo di deliberazione potrebbe dare spazio ad ulteriori proteste e portare all’ennesimo stallo nella politica bipolarizzata della Thailandia, proprio mentre si prepara, per il 2 settembre prossimo, un summit volto all’elaborazione di riforme per la riconciliazione nazionale, con ospiti internazionali come Tony Blair e Kofi Annan.
Il leader dell’opposizione Abhisit ha già fatto sapere che prenderà parte all’evento solamente a patto che il disegno di legge sull’amnistia venga ritirato.
Come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera. Non sembra questo il caso per i tentativi di riconciliazione nazionale in Thailandia.