Si è appena concluso il mese del ramadan: il mese del digiuno, dedicato all’autodisciplina, alla riflessione e alla penitenza, al senso di appartenenza a una comunità e quindi alla tregua in tutti i conflitti. L’ultimo atto è la festa dell’īd al-fiṭr, la “fine del digiuno”, dedicata alla riconciliazione.
Quest’anno, nei paesi musulmani, non c’è stata né penitenza, né tregua, né, tantomeno, riconciliazione. E per quello che le varie fazioni in guerra si sono promesse, i giorni dopo l’īd al-fiṭr saranno peggio ancora.
Lo abbiamo visto subito in Pakistan, nella provincia meno “pakistana” di tutte, il Baluchistan, dove in due giorni ci sono già stati due attentati suicidi, con varie decine di morti. Il mese del ramadan è stato particolarmente sanguinoso in Siria (4.400 morti almeno), dove c’è la guerra, ma anche in Irak (880 morti), dove la guerra ufficialmente non c’è, e tutte le vittime – tutte musulmane – sono state provocate da atti terroristici (come in Pakistan e in Afghanistan, dove due spettacolari azioni di guerriglia hanno portato all’evasione di centinaia di mujaheddin e di terroristi).
Naturalmente, in questa lista di tregue mancate, e a dire il vero nemmeno ricercate, un posto particolare spetta all’Egitto: il paese è spaccato in due parti ostentatamente irreconciliabili, e tutto lascia presagire una soluzione violenta del conflitto (anche se il vincitore c’è già).
E poi c’è la Tunisia: dal 25 luglio, giorno in cui uno dei leader dell’opposizione, Mohamed Brahmi, è stato freddato davanti casa, il paese è percorso da una serie di manifestazioni antigovernative che potrebbero portare alla caduta del governo e, forse, a nuove elezioni. Uno scenario di turbolenze che ritroviamo a Bengasi, dopo l’assassinio di un altro militante, Abdelsalam Al-Mosmary; e in Marocco, dove la grazia accordata a un pedofilo spagnolo ha messo in subbuglio il paese e in crisi la monarchia di diritto divino.
Senza dimenticare la Turchia, dove si è chiuso il processo a 275 persone accusate di aver pianificato spaventosi attentati e assassini mirati per creare un clima favorevole a un golpe; sedici militari di alto rango sono stati condannati all’ergastolo, tra cui l’ex capo di Stato maggiore Ilker Basbug. Anche qui, il riflesso pavloviano anti-islamista ha portato alcune migliaia di “democratici” a manifestare in favore degli ufficiali aspiranti putschisti.
E senza dimenticare l’Iran, dove il nuovo presidente Hassan Rohani è entrato ufficialmente in carica, promettendo una svolta decisiva in senso liberale. Esattamente quel che promisero due suoi colleghi ayatollah assurti alla carica suprema: Hachemi Rafsandjani nel 1989, e Mohammad Khatami nel 1997.
E senza dimenticare la Palestina, di cui si torna a parlare con speranza dacché John Kerry ha riportato di peso Benjamin Netanyahu e Mahmud Abbas alla greppia delle trattative. Nel frattempo, tanto per ricordare a tutto il mondo come funziona la solidarietà dei governi arabi e musulmani, il Libano ha deciso di chiudere le sue frontiere ai rifugiati palestinesi che vorrebbero fuggire dalla Siria in guerra.
Tutto questo è successo nel mese della tregua, della penitenza e della riconciliazione.
Une ventina di anni fa, in un celebre saggio, Samuel Huntington parlava di «islam’s bloody borders». La spiegazione di Huntington, come tutta la sua teoria sul clash of civilizations, ha un pregio enorme: è chiara, disegna con nettezza le frontiere tra le civiltà (vedi carta), aiuta a capire chi è di qua e chi è di là, chi siamo noi e chi sono gli altri. Ma ha un difetto ancora più grande: questa realtà così netta, così squadrata, così facilmente comprensibile non esiste. La realtà è sempre più complessa e sfumata: l’India è senz’altro la patria della “civiltà indù”, come dice Huntington, ma è anche il terzo paese al mondo per popolazione musulmana. Secondo alcuni, tra qualche decennio la Cina sarà il primo paese musulmano al mondo, e l’India il secondo: che ne faremo allora delle belle carte colorate di Huntington?
Dieci anni dopo il saggio di Huntington, nel 2003, uno specialista dell’islam, Graham Fuller, ha offerto un punto di vista più analitico: «Muslim populations have been penned in for years, and when the gates open, it will be a rough ride». I cancelli, oggi, si sono aperti, e il rough ride è in corso.
Siamo solo agli inizi. Le relazioni internazionali sono state congelate per decenni dall’egemonia degli Stati Uniti, che hanno usato i regimi arabi e musulmani con sbarazzina spregiudicatezza. Poi, a partire dall’Iran nel 1979, questi paesi hanno cominciato ad andare per conto loro, e gli Stati Uniti, sempre alla ricerca del tempo perduto, hanno inanellato un disastro dietro l’altro. Fino ad oggi, quando è palese che non sanno più che pesci pigliare. È lì che bisogna guardare se si vuole capire il rough ride che scuote non solo il mondo musulmano, ma il mondo tutto intero.
Dimenticavo: nel suo pezzo del 2003, Fuller concludeva così: «Gli islamisti vinceranno le prime elezioni. Ma vinceranno le seconde? Se, una volta al potere, non manterranno le loro promesse, they will fail».
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