Una settimana in Africa. Senegal, Sud Africa e Tanzania. Queste le tappe dell’ultimo viaggio del presidente americano Barack Obama. Solo il secondo da quando è alla Casa Bianca. Una numero assai più basso delle 8 visite di Bill Clinton. E delle 9 di George W. Bush. Un numero che, forse, può spiegare tante cose. Non solo il ritardo americano rispetto alla tanto citata “scramble for Africa”, la nuova corsa alle immense risorse naturali e materie prime del continente. Ma, soprattutto, la consapevolezza della sempre più limitata capacità americana di incidere sulle vicende più drammatiche del continente. Un’incapacità dettata da due fattori. Dalle limitazioni che la crisi economica e finanziaria ha imposto al profilo della politica estera di Washington. E da un ripiegamento preoccupante della pratica e della cultura diplomatica degli Stati Uniti.
Se George W. Bush aveva limitato il suo interesse per l’Africa all’azione umanitaria e un po' bigotta contro l’AIDS – fondi a pioggia per l’educazione sessuale ma niente preservativi – gli anni di Obama sono stati un po’ troppo segnati dai raid aerei contro gli Al-Shabab in Somalia, dall’addestramento degli eserciti africani per la lotta all’estremismo islamico nella regione del Sahel, dall’uso dei droni e dal sostegno politico alla campagna militare NATO contro Gheddafi. Momenti della politica estera americane che, sulla scia dei ricordi delle stragi contro le ambasciate a Nairobi e Dar Es Salam negli anni ‘90, hanno alimentato una pericolosa ossessione per la sicurezza. Ma, una ancor più, una grave tendenza all’isolamento fisico e umano del personale diplomatico delle ambasciate americane, protetti in deliziosi compound “al di fuori della realtà”. Torri d’avorio e di filo spinato dalle quali può apparire un po’ più complesso capire quello che si muove nell’Africa.
La realtà è invece quella di un continente che vuole crescere e trasformarsi. Puntare sull’agricoltura, l’industrializzazione e sulle sue materie prime. E per farlo guarda sempre più a Est. Non più a Nord. Alla Cina – il cui commercio con l’Africa è oggi quadruplo rispetto a quello degli Stati Uniti – e all’India innanzi tutto. Ma poi al Qatar, alla Corea del Sud, alla Malesia, al Vietnam. Oppure alle stesse latitudini, quelle del Brasile. Paesi tutti affamati delle infinite risorse africane per sostenere ritmi di crescita economica che il Nord industrializzato non vede da un pezzo. Questo nuovo asse del Sud-Est non parla di “aiuti” né di “assistenza alla svillupo” – le formule del Nord – ma piuttosto di “solidarietà”, “cooperazione economica”, “prosperità comune”. L’Africa appare loro un continente pronto al “take-off”, il cui boom è occasione preziosa comune per i popoli dell’est e del sud del mondo. Ma l’Africa ha capito che le risorse che possiede le può utilizzare e distribuire con saggezza, condizionando la loro cessione al rispetto dei propri obbiettivi di crescita. Al finanziamento delle sue priorità. Si comprende così perchè le accuse lanciate qualche anno fa dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton sul neo-colonialismo di Cina e India in Africa si avvicinino più all’idiozia che alla realtà.
Un piccolo esempio conferma la nostra convinzione. Una sola parola, la chiave più importante di ogni sviluppo economico: infrastrutture. Quelle costruite dagli imperiali coloniali dell’ottocento – strade, ponti, ferrovie – furono pensate solo per trasferire le materie prime dall’interno del continente ai porti delle coste. Destinazione? Le metropoli della madrepatria. Oggi, le dighe, le centrali idroelettriche e le autostrade finanziate e costruite con i capitali dei Paesi emergenti cercano di ridurre le distanze tra città e campagna, creano mercato per gli africani, facilitando lo scambio di beni e servizi all’interno dei vari Paesi e del continente. Altro che neo-colonialismo.
A rinnegare un po’ la Clinton ci ha pensato anche lo stesso Obama, che nelle sue ultime ore africane ha ammesso implicitamente i ritardi di Washington nel capire le sfide dell’Africa. Dalla Tanzania, il presidente americano ha lanciato l’Africa Power, un piano da 7 miliardi di dollari in 5 anni per raddoppiare la rete elettrica dell’Africa sub-sahariana e ridurre così i black out in una zona dove due terzi della popolazione non dispone di elettricità. Comincia la rincorsa a CinIndia, dunque. Eppure la nuova mappa geopolitica dovrebbe indurre il Nord del mondo a riconoscere, una volta per tutti, i propri limiti. Ad accettare con realismo il proprio ridimensionamento. E la nuova realtà di un mondo multipolare. Quello che l’Africa conferma è che non esiste crisi o conflitto del continente che non coinvolga gli interessi dei suoi nuovi partner. Le soluzioni alle crisi in Darfur e in Sudan, ad esempio, passano per la Cina e il Qatar. Quella del Mali per una quantità di protagonisti su cui possiamo avere un’influenza limitata.
Gli Stati Uniti, che hanno mostrato particolare attenzione per il Kenya, paese d’origine della famiglia Obama, non sono riusciti a influenzarne la transizione politica. Presidente del Kenya è oggi Uhuru Kenyatta, incriminato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità per le violenze post-elettorali del 2008. Un imbarazzo che ha convinto Obama a non fare tappa a Nairobi. Ed eccola, forse, la questione più delicata. La presenza crescente di nuovi attori in Africa potrebbe sempre più favorire l’emergere di assetti istituzionali e politici nuovi, magari influenzati dai modelli orientali. A “noi” meno familiari. Ma con cui l’occidente dovrà imparare a convivere. Senza per questo rinunciare a difendere quei valori di democrazia e del rispetto dei diritti umani che sono patrimonio dell’intera umanità.