Poco meno di quarante bracciate nel mare piatto del Canale di Sicilia. Quelle che servono per aggrapparsi alla gabbia dei tonni. Che è poi la vita, o a quel che ne resta. Ma solo chi ha forza può scalare la cima. Scampare alla deriva di quella barca di fortuna e trovare riparo nella motopesca tunisina. Sempre che il pescatore, incazzato di suo, povero tra poveri, non mozzi quel filo che può avvicinare alla terraferma. E ad un’altra possibilità.
Parole che spieghino la disperazione dei migranti ancora non le hanno inventate. Forse qualcuno ci è andato vicino. Dando quasi forma e sostanza al loro dolore.
Ma non saranno mai abbastanza per fotografare l’attimo di quel tuffo in mare. Il gesto disperato che è cronaca quotidiana di un movimento di uomini, donne e bambini che, ogni estate, torna a popolare il mare nostrum. Come le rondini in primavera, il mediterraneo della stagione calda è il navigare rischioso di gommoni, migranti e speranze. Che spesso diventano tragedie. Davanti alle acque dell’isola di Lampedusa.
La notte del 16 giugno la fortuna e il destino hanno permesso di evitare un’altra strage. Ma non sapremo mai se per una barca che attracca c’è un gommone affondato. Se per un migrante che posa le sue gambe stanche sulla terraferma, c’è n’è un altro che dorme, per sempre, sul fondo del mare. Arrivano dalla Tunisia, dalla Libia, dall’Africa subsahariana di Stati falliti, in guerra, disfacimento o impegnati in una difficile ricostruzione. Arrivano dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Sudan, dal Mali, dal Chad, dalla Repubblica Democratica del Congo.
Per un po’ di tempo il fenomeno è sembrato rientrare. Non siamo più ai picchi che hanno seguito lo scoppio delle rivolte in Tunisia e Libia nel corso del 2011. Già nel 2012 gli sbarchi degli immigrati sono stati 13.245, in netto calo rispetto agli anni precedenti. Però, nei primi mesi del 2013 ne abbiamo già contati 6000 e la situazione nel Maghreb o le belle giornate possono incoraggiare nuove avventure in condizioni estreme.
Eppure c’è un rapporto uscito in questi giorni – quello pubblicato dall’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i rifugiati – che dovrebbe indurci a smorzare quei facili allarmismi e, al contempo, quelle ingenue sottovalutazioni che spesso popolano il dibattito in Italia.
Le domande di asilo politico nel nostro Paese sono state nel 2012 la metà di quelle registrate nel 2011. Più in generale, non è il nord civilizzato, industriale e sviluppato a subire l’assedio dei migranti o dei rifugiati in cerca di asilo. Numeri interessanti dicono che 81 rifugiati su 100 sono ospitati in Paesi in via di sviluppo. Ben 2 milioni e mezzo di rifugiati, il 24% del numero totale di 45milioni “worldwide”, vivono addirittura nei Paesi meno sviluppati del pianeta. Si pensi al Pakistan che in questi anni ha ospitato oltre 1 milioni di rifugiati dall’Afghanistan. Consentire a questi Paesi di avere le capacità e le strutture per ospitare i migranti è la chiave per evitare nuove tensioni tra le comunità che ospitano e quanti cercando rifugio. Tensioni che in paesi come Kenya, Sudan, Giordania sfociano spesso in violenze e discriminazioni.
E questo problema si pone anche per la nostra piccola e bella Lampedusa. Sembrano lontani i tempi in cui, nel 2011, uno Stato assente provocò l’interruzione dei trasferimenti sul continente. Causando la permanenza, in condizione di pericoloso sovrafflollamento di oltre 11000 “ospiti” contro i 6500 abitanti dell’isola. Eppure. il centro di accoglienza è passato oggi dagli 800 ai 250 posti letto a disposizione. Il trasferimento dall’isola al continente deve essere più veloce. Più veloce la cura sanitaria e il soccorso di prima accoglienza. Ma non solo. Lampedusa rimane la porta dell’Europa. La porta mediterranea che schiude ipotesi di una nuova vita sulla riva nord del “nostro mare”. O verso l’Europa più fredda.
Un militare italiano impegnato in operazioni di salvataggio con un piccolo rifugiato dal Nord Africa
Abbiamo quindi un sogno: che l’Europa sappia affrontare la questione, finalmente, con una strategia più solida. Fatta di prevenzione delle tragedie e di maggiore assistenza alla crescita e allo sviluppo dei Paesi della sponda sud del bacino mediterraneo. E magari dedicare qualche attenzione in meno ai forum impolverati della vecchia governance mondiale come il G8. E rilanciare in maniera seria quel processo di Barcellona che aveva puntato, nel 2008, sulla creazione di un’Unione per il Mediterraneo. Unione che esiste da secoli nelle geografia e nel commercio, nel movimento di uomini e donne tra i porti di Palermo, Genova, Napoli, Marsiglia, Atene, Algeri e Tunisi. Ma che oggi, con sua debolezza politica, ancora costringe migranti e rifugiati a quelle bracciate disperate nel canale di Sicilia.
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