La tentazione dopo il fallimento del referendum sulla giustizia è far finta di nulla, e ricominciare da capo sulla stessa linea. Archiviato rapidamente il voto, il banco di prova ora è l’esame al Senato della cosiddetta “riforma della giustizia”, voluta dal ministro Cartabia, e oggetto di mediazioni infinite e inadeguate.
Riguarda in gran parte questioni sottoposte al vaglio referendario (tre dei cinque quesiti). I propositi sono chiari: «Voteremo tutti gli emendamenti in linea con i referendum», annuncia la Lega (Bongiorno). Si pensa di introdurre per legge le modifiche che non sono passate il 12 giugno. Quello che non si è ottenuto con i referendum si prova a realizzarlo in altro modo. Come se il voto referendario non avesse insegnato nulla.
L’obiettivo è utilizzare la riforma Cartabia per coltivare disegni ideologici mai sopiti, ecco l’eterna rivalsa verso la magistratura additata come neghittosa e recalcitrante, l’insofferenza del potere verso il controllo di legalità. I progetti non prevedono di migliorare il sistema giustizia. Quel magro bottino di sì su tre quesiti (separazione delle funzioni, votazioni sui magistrati, elezione del Csm), in un contesto inefficace, alimenta la coazione a ripetere gli errori, piuttosto che suggerire un ripensamento.
Non importa che il principale istituto di democrazia diretta abbia registrato una debacle totale con la più bassa percentuale di partecipazione degli ultimi tempi. Il popolo che non partecipa alle consultazioni è un segnale grave per la democrazia. Dovrebbe indurre a cambiare metodo. Negli ultimi quindici anni sono fallite otto consultazioni referendarie su nove, in un quadro generale in cui l’affluenza cala in tutte le chiamate al voto.
Né si riflette che il vero problema di questo e degli altri referendum falliti sia rappresentato dal “tipo” di quesiti proposti. In passato, il quorum è scattato su quesiti come divorzio, aborto, nucleare, acqua pubblica. Sarebbe accaduto lo stesso per i quesiti su suicidio assistito e cannabis, se fossero stati ammessi dalla Corte Costituzionale.
Domande chiare, a cui è possibile rispondere con un sì od un no, di portata politica o culturale generale e tale da coinvolgere il cittadino. Qui, le questioni riguardavano aspetti interni al funzionamento della magistratura e ai rapporti con altri poteri dello Stato, o profili procedurali. Questioni complicate e settoriali, non risolvibili tagliando un rigo ed eliminando una virgola.
C’è molto di più che la gente percepisce con evidenza. Una lontananza siderale rispetto ai problemi che i cittadini avvertono come cruciali: l’efficienza del processo e la cornice istituzionale nella quale opera il magistrato. Cosa si fa per accelerare i processi? Quali interventi poi si immaginano per far crescere la credibilità della funzione, dopo le cadute etiche provocate dagli scandali?
La percezione è che il dibattito pubblico non abbia questa consapevolezza, e alimenti al contrario una narrazione che tende a scaricare sulla magistratura (che pure ha le sue colpe) le cause del dissesto.

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La giustizia ha bisogno di riforme radicali che restituiscano efficienza senza cedere sulla qualità. In tutti i settori, dalle norme sostanziali a quelle procedurali, a quelle infine sull’esecuzione delle pene. In questo contesto è necessaria anche una modifica ordinamentale che rimuova i nodi che hanno travolto l’associazionismo di categoria e soprattutto l’organo di autogoverno, il Csm. Ma le mosse attuali e quelle meno recenti di parlamento e governo si collocano in un altro orizzonte. Lo si intuisce dalle materie toccate e dal modo di intervenire.
L’attuale riforma trascura le cause del disservizio, a cominciare da lentezze, ritardi, inefficienze e incongruenze, concentrandosi sull’elaborazione di un nuovo “statuto del magistrato”, come se ciò fosse il problema predominante.
C’è in concreto un’ottica rivolta al profilo ordinamentale a discapito delle misure che permetterebbero di accelerare l’azione giudiziaria. Inoltre è fuorviante il “registro” utilizzato: questi interventi assecondano un modello organizzativo di tipo gerarchico, ormai superato nelle strutture complesse.
Predomina l’impronta aziendalistica, qui inappropriata. È ipotizzato il controllo di “target produttivi” fissati dai vertici e la leva disciplinare è concepita non per sanzionare gli illeciti ma per orientare i comportamenti.
Rendere giustizia è una “performance” del magistrato misurabile con i risultati raggiunti, come se fosse un produttore di beni, non un operatore di giustizia. I criteri sono errati, le regole inadatte. Ecco che il merito dovrebbe consistere non tanto nella capacità di interpretare e risolvere casi complessi, cioè di stare nella realtà, quanto nel rispetto di statistiche di per sé opinabili, costruite sul parametro abnorme della “conformità” delle decisioni nei gradi successivi, rispetto al quale scatterebbe il calcolo di “anomalie”.

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Le decisioni difformi (tra pm e giudice, o tra gradi di giudizio) non sono, solo per questo, dimostrative di un errore, né tanto meno di un’anomalia: dov’è finito il dialogo all’interno della giurisdizione, l’evoluzione interpretativa delle norme, il cambiamento giurisprudenziale? Il cardine dell’impostazione è un sistema elettorale del Csm di tipo maggioritario, che invece per esperienza si mostra inadatto a contrastare l’influenza delle correnti.
Quanto propugnato dalla riforma Cartabia accrescerebbe i difetti del sistema, potenziando il correntismo, invece che provare ad eliminarli. Il sistema proporzionale invece sarebbe più utile, perché tende a valorizzare le personalità dei singoli a prescindere dall’appartenenza. È il più adatto al lavoro del Csm, il quale non ha le caratteristiche degli organismi istituzionali di natura politica.
Al Csm non sono necessarie maggioranze stabili e durature, garantite dal sistema maggioritario. Anzi è meglio che non ci siano, per il tipo di lavoro da svolgere, che è appunto la valutazione del merito dei singoli.
La lotta alle correnti dunque si giova di un sistema elettorale proporzionale per la scelta dei candidati. Ma tutto ciò, pur utile, non basterebbe ancora. Poi occorrerebbe un passo ulteriore per una svolta decisiva. Nello stesso tempo serve introdurre meccanismi che assicurino chiarezza e trasparenza ad ogni livello.
Si pensi alla possibilità per ciascun candidato di disporre di strumenti istituzionali per farsi conoscere, promuovere le proprie idee, formare apertamente un consenso, a prescindere dall’appoggio di una corrente o dalla sponsorizzazione di un gruppo di potere. Si pensi ancora alla possibilità che le scelte per i ruoli direttivi avvengano attraverso procedure pubbliche e mediante esposizione altrettanto aperta delle ragioni della decisione: servirebbe ad accrescere responsabilità e chiarezza.
È palese però che le problematiche sullo statuto del magistrato, al centro dell’attenzione politica, sono soltanto un aspetto del problema. Né l’unico, né forse quello di maggiore impatto. Le criticità non riguardano soltanto l’uso distorto del referendum, ma quello di tanti altri istituti sostanziali e procedurali.

La disciplina inadeguata o superata ha ripercussioni sull’efficienza e sulla speditezza dei processi. Da tempo gli studiosi riflettono sulle incongruenze della normativa penale e processuale, due settori cruciali del sistema, troppo sottovalutati.
Servirebbe una drastica riduzione del numero dei processi, con una contrazione della sfera di operatività della norma penale. Non solo una forte depenalizzazione, ma proprio un diverso approccio di fronte ai problemi della convivenza civile. Ma, come è facile constatare, l’orientamento è di segno opposto: continui interventi per introdurre reati od aggravanti. La politica abdica al ruolo di governare i fenomeni sociali diversificando gli strumenti, e invece concentrandosi su quello penale. È ritenuto più efficace. È sbrigativo e consolatorio pensarlo.
Poi subentrano i problemi della procedura penale. Il sistema è governato da un principio di inefficienza, che non discende affatto dal rispetto sacrosanto delle garanzie per il cittadino inquisito. Il problema è la mancanza di regole che prevengano o impediscano le distorsioni. Ovvero l’uso abnorme o strumentale degli strumenti giuridici. L’altro problema cruciale è il difetto di un ragionevole equilibrio tra esigenze contrapposte. Un contemperamento, nei modi e nei tempi, tra le varie possibilità.
Due campi di possibili interventi possono essere individuati nel sistema delle impugnazioni e nella disciplina delle scelte processuali possibili per arrivare alla decisione.
Nella disciplina delle impugnazioni contro le decisioni giudiziarie, non sono previste significative “deterrenze” riguardo all’uso abnorme o infondato delle garanzie processuali, per contrastare manovre dilatorie, ostruzionistiche, dirette soltanto a guadagnare tempo, prima che intervenga la salvezza processuale della prescrizione (e da poco anche dell’improcedibilità).
Inoltre un fattore dirompente è rappresentato dall’assenza, nei gradi di impugnazione, di una percentuale di rischio, che renda problematico ed incerto l’esito del giudizio, dando la possibilità che – con i dovuti presupposti – possa esservi una conclusione peggiore di quella del primo grado. Oggi, una sentenza d’appello peggiorativa è preclusa per legge dal divieto della reformatio in peius, cioè di riformare in peggio la sentenza del primo giudice. Così l’appello diventa un tentativo da coltivare comunque, anche avendo torto, perché, tanto, peggio non potrà mai andare. Nel frattempo la giustizia si ingolfa di cause che non avrebbero ragione d’essere. È tollerabile?
Guardiamo a quel che accade in altri paesi (ovviamente quelli democratici non autoritari) per trarne elementi utili.
In Francia, soltanto il 40 per cento delle condanne di primo grado è soggetto ad appello; lì c’è la concreta possibilità che, nel secondo giudizio, ci sia condanna a pena più alta perché non vale il principio del divieto di riformare in peggio la sentenza. Ci si pensa due volte prima di fare appello, potrebbe andare peggio. Da noi non è possibile e si vede: si appella quasi sempre.
Cambiare la situazione è possibile, si ridurrebbe il numero dei processi senza ledere alcun diritto, solo inducendo a pensarci di più prima di appellare.
L’altro aspetto centrale della disfunzione giudiziaria riguarda, come anticipato, il rapporto tra il dibattimento e i procedimenti alternativi, come il patteggiamento, cioè l’insieme di quegli strumenti che, in cambio di un vantaggio per l’imputato, dovrebbero accelerare la definizione dei processi e evitare il ricorso al più “costoso” dibattimento. C’è una reale alternativa? Sono incentivati i procedimenti speciali?
Negli Stati Uniti si fa largo uso del patteggiamento e ci sono pochi dibattimenti: il soggetto si dichiara colpevole, patteggia e la cosa si chiude lì. Chi decide di andare a processo, dichiarandosi innocente e poi viene accertato che non lo è, corre un brutto rischio, incorre in condanne infinitamente più pesanti per cui ci penserà bene prima di provarci. Inoltre va subito in carcere, al termine dell’udienza viene preso dallo sceriffo e condotto dietro le sbarre.
Da noi, nei tempi di sviluppo e nelle conseguenze, non esiste una grande convenienza a scegliere i procedimenti speciali, e così si va (quasi) tutti in giudizio. In Italia, è possibile persino ricorrere in Cassazione contro il patteggiamento che si è appena concordato. Quando ci si interroga sull’insuccesso dei riti alternativi rispetto al dibattimento, o magari si sogna un sistema in cui il pm non è un magistrato ed è addirittura elettivo, bisognerebbe guardarsi intorno, per esempio l’America, e farne tesoro.
Non si finirebbe di fare esempi di campi nei quali sarebbe necessario intervenire. Ma occorre almeno aggiungerne un altro. L’esecuzione delle pene inflitte è il settore ulteriore dove domina – per mancanza di personale e mezzi – l’inefficienza. Quando il processo supera le infinite sabbie mobili che lo caratterizzano, e giunge al termine, subentra la paralisi, quel tempo incerto e sospeso in cui non si sa cosa accadrà.

La cronaca evidenzia lo scandalo, come di recente. Un tizio a Carrara ha ucciso a colpi di pistola una prostituta e una trans. Ma doveva essere in carcere per scontare una condanna per rapina. Sono questi i momenti curiosi in cui il ministro della Giustizia, distogliendo l’attenzione dai piani di riforma epocale della giustizia, si guarda intorno sorpreso, chiedendosi cosa stia succedendo. Dovrebbe saperlo.
In Italia molti condannati a pene detentive (fino a quattro anni) vivono nel limbo. Sono condannati “sospesi”, perché con quella condanna si deve decidere se ammetterli alle misure alternative o mandarli in carcere. Sarebbe relativamente semplice se ci fossero i mezzi e i casi fossero pochi. Sono invece un numero che nessuno conosce, tra i 40 e i 60 mila. Mancano i giudici di sorveglianza, difettano gli esperti all’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna), un ufficio che dipende dal ministero.
In un periodo di aspre e incessanti polemiche sulla giustizia, anche determinate da cedimenti morali dei singoli e da scandali inaccettabili, è pericoloso il declino del dibattito pubblico, l’incapacità di analizzare i mali storici e individuare possibili soluzioni. In gioco è il patto di credibilità tra la gente e la giustizia, da cui dipende il funzionamento stesso della democrazia, perché non possiamo rinunciare alla legalità.
Non giovano i recenti esempi di approssimazione e anche di vacuità, costituiti dai quesiti referendari e dalle multiformi e ridondanti riforme della giustizia, annunciate con enfasi e così poco incisive. Queste iniziative contribuiscono ad aggravare il malessere del sistema. Però prima di rassegnarsi al peggio, rimane da coltivare uno spazio, esiguo ma non irrilevante, per immettere nel confronto elementi di realtà e di razionalità.