A Taipei il cielo terso e il clima mite paiono ignorare le tempeste geopolitiche. Ad appena qualche decina di chilometri ad ovest, invece, la tensione cresce giorno dopo giorno. Lin Wei, pescatore dalla corporatura esile e dal viso segnato da anni di lavoro per mare, racconta che qualche giorno fa, nello spicchio d’acqua dello Stretto di Taiwan dove molla solitamente le reti, all’orizzonte ha scorto delle navi militari cinesi più vicine del solito. “Ogni volta che le vedo, mi chiedo quanto tempo ci vorrà prima che non sia più un semplice avvistamento”.
Giovedì è stata una giornata di festa per Taiwan, che ha celebrato 113 anni di esistenza. Il 10 ottobre, o “Double Ten Day” com’è anche conosciuto, segna infatti il giorno della rivolta del 1911 che portò alla caduta della dinastia imperiale cinese Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina ad opera del nazionalista Chiang Kai-shek. E in un discorso tenuto davanti al Palazzo Presidenziale della capitale, dove per l’occasione si erano assiepate migliaia di persone, il presidente Lai Ching-te ci ha tenuto a ribadire che Pechino “non ha alcun diritto di rappresentare l’isola”.
“Il mio compito è garantire che la nostra nazione resista e progredisca, tenendo insieme 23 milioni di taiwanesi”, ha scandito dal palco adornato di fiori rosa e violetto il 65enne esponente del Partito Progressista Democratico, formazione di centro-sinistra tradizionalmente ostile al dialogo con la Cina continentale (e avversaria del più conciliante Kuomintang, fondato da Chiang).

Da quando è entrato in carica a maggio, Lai ha adottato un linguaggio audace riguardo all’indipendenza di fatto di Formosa, isola governata democraticamente che Pechino considera una “provincia ribelle” destinata ad essere annessa alla madrepatria. Allusioni che hanno suscitato in più occasioni l’ira funesta di Pechino e ammonimenti sotto forma di esercitazioni militari sullo Stretto che divide le due Cine.
Invero, giovedì il leader taiwanese non ha mancato di esprimere la disponibilità a collaborare con la Cina su alcune questioni comuni come il cambiamento climatico, le malattie infettive e la sicurezza regionale. Durante la cerimonia, che ha visto spettacolari esibizioni di bande militari e sorvoli aerei, Lai ha invitato Pechino a “contribuire positivamente alla pace globale”, ricordando come l’Occidente abbia sostenuto il Dragone con la speranza di una sua partecipazione attiva – e pacifica – nella comunità internazionale. Auspicio che, sottintende, è stato largamente tradito dalle posizioni di Pechino, non da ultimo con il supporto alle azioni russe in Ucraina.
Il presidente ha contrapposto il comportamento di Pechino a quello di Taipei, affermando che in un’epoca di caos internazionale, Taiwan è destinata ad affermarsi sempre più come nazione “calma, sicura e forte”. Un discorso, quello di Lai, interpretato dagli addetti ai lavori come una continuazione della linea pragmatica dell’amministrazione precedente guidata da Tsai Ing-wen (di cui Lai è stato vicepresidente dal 2020 al 2024).
Le sue parole hanno immediatamente suscitato reazioni forti da parte della Cina. Il Governo di Pechino ha definito le affermazioni di Lai come quelle di un pericoloso “separatista” e “disturbatore”. Un portavoce del ministero degli Esteri ha dichiarato che il leader taiwanese starebbe cercando di recidere i “legami storici” tra le due sponde dello Stretto, affermando che il governo continentale è l’unico rappresentante legale di Formosa (Lai sostiene invece che sarebbe “impossibile” dare adito alle rivendicazioni della Repubblica Popolare Cinese, dato che il governo dell’isola precede l’arrivo al potere dei comunisti di Mao, nel 1949).
Al coro di dichiarazioni si è aggiunto anche l’Ufficio per gli Affari di Taiwan della Cina – una sorta di ministero ad hoc per i rapporti con Formosa – che ha descritto i commenti di Lai come “vino vecchio in una bottiglia nuova” e ha accusato il presidente di voler subdolamente provocare un’escalation politico-militare.

Provocazioni o meno, il clima di tensione attorno a Taiwan è inequivocabilmente aumentato negli ultimi anni, con Pechino che ha intensificato le dimostrazioni di forza contro l’isola. Il presidente Xi Jinping ha chiaramente indicato la riunificazione di Taiwan come un punto cruciale della sua eredità politica, minacciando l’uso della forza se necessario.
Consapevole della morsa cinese, il Governo taiwanese ha contestualmente cercato di rafforzare le sue alleanze internazionali, in particolare con gli Stati Uniti, che hanno incrementato il sostegno militare e politico all’isola e promesso, parola di Joe Biden, di intervenire in difesa dell’isola in caso di invasione cinese.
Come buona parte della comunità internazionale, Washington non riconosce ufficialmente Taiwan come nazione indipendente a causa della “politica di una sola Cina”, ma ciò non ha impedito di fare arrivare a Taipei nuove batterie di difesa aerea e missili a lungo raggio per scopi di auto-difesa. E nell’ultimo biennio, diversi politici statunitensi di alto profilo di entrambi gli schieramenti, tra cui l’ex speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, hanno fatto tappa a Taiwan per dare seguito alle promesse di supporto militare all’isola.
Puntualmente, ogni volta la Cina continentale ha risposto a quelle che definisce “provocazioni indipendentiste” alla solita maniera: grandi esercitazioni militari a pochi metri dal territorio taiwanese. E con ogni probabilità anche stavolta sarà così: giovedì, il ministero della Difesa di Taiwan ha segnalato l’avvistamento di 27 aerei cinesi e cinque navi militari nello Stretto, chiara indicazione dell’attività militare in aumento.
Il pescatore Lin Wei si dice però pronto a tornare in mare. “Siamo abituati a vivere sotto questa minaccia”, afferma con un sorriso, “ma la vita continua”. E così, nonostante tutto, continua anche la storia di Taiwan.