È morto a 92 anni Daniel Ellsberg, la “talpa” dei Pentagon Papers, bestia nera di Nixon e Kissinger (quest’ultimo lo definì “l’uomo più pericoloso d’America”), che alla fine di febbraio aveva annunciato di avere i giorni contati a causa di un tumore al pancreas.
Ellsberg, nato a Chicago nel 1931, laureato ad Harvard e diventato analista della Rand Corporation e poi del Pentagono, rivelò nel 1971 dei documenti segreti che riguardavano uno studio sulle origini del conflitto in Vietnam. Commissionato dall’allora segretario alla difesa Robert McNamara, anche Ellsberg ci aveva lavorato. Lo studio sarebbe dovuto rimanere “top secret”, ma invece le sue “verità” finirono pubblicate a puntate sulle pagine del New York Times e – dopo che il Dipartimento alla Giustizia per volere di Nixon riuscì a farne sospendere le pubblicazioni – su quelle del Washington Post (anche Steven Spielberg qualche anno fa ci fece un film).
Queste rivelazioni, che dimostravano come ben quattro amministrazioni del governo degli Stati Uniti, da Eisenhower fino a Nixon, avessero mentito su ragioni e obiettivi di una guerra tanto inutile quanto invincibile, scossero enormemente l’opinione pubblica americana, che allora considerava la stampa mainstream ancora affidabile e si indignava dopo averne letti gli scoop. Non solo lo scandalo dei Pentagon Papers accelerò il ritiro degli americani dal Vietnam, ma dette una spinta ad un’altra inchiesta, quella del Watergate, che costrinse poi alle dimissioni Richard Nixon nonostante avesse iniziato il suo secondo mandato dopo una rielezione ottenuta con una valanga di voti.
La vicenda di Ellsberg si legò per sempre a quella del Watergate anche perché l’analista riuscì ad evitare il carcere grazie al fatto di essersi ritrovato tra gli obiettivi della stessa squadra speciale di “idraulici” (come veniva chiamato il gruppo di ex agenti dell’Fbi, della Cia e di cubani anticastristi che per conto di Nixon facevano i “lavori sporchi”). Infatti, a causa delle rivelazioni dei Pentagon Papers, Ellsberg – che appunto non era un giornalista, ma un analista di affari militari che aveva lavorato per il governo e quindi costretto al riserbo – venne incriminato per spionaggio e per aver complottato ai danni degli Stati Uniti.
Ma poco prima che la giuria pronunciasse il verdetto certo di condanna, il giudice proclamò il “mistrial”, rigettando il caso perché l’amministrazione Nixon aveva spiato illegalmente Ellsberg, entrando con i “plumbers” di Gordon Liddy e Howard Hunt nello studio del suo ex psichiatra per carpirne i segreti che potessero screditarlo. Gli uomini che compirono quell’azione contro Ellsberg, erano gli stessi che pochi mesi dopo piazzarono le microspie nel quartier generale del partito democratico al Watergate.
La vicenda di Ellsberg è così equivalente, a distanza di 50 anni, a quella di Edward Snowden, l’ex analista della NSA (National Security Agency) che rivelò informazioni segrete su come la NSA spiasse anche le comunicazioni dei cittadini americani e che alla fine è fuggito in Russia dato che negli USA sarebbe finito all’ergastolo. Ellsberg, che invece non fuggì ma dopo una breve latitanza si consegnò alle autorità, deve i suoi 50 anni di libertà solo a quei “crimini” a sua volta commessi da “Tricky Dicky” Nixon, che gli fecero scampare la galera.

Il caso dei Pentagon Papers lasciò un’impronta indelebile sulla storia americana anche per la famosa sentenza della Corte Suprema, quando l’amministrazione Nixon cercò di bloccare ulteriori pubblicazioni dei documenti accusando i giornali di compromettere la sicurezza nazionale. La Corte Suprema degli Stati Uniti si pronunciò 6-3 a favore del NYT e del WP il 30 giugno 1971: avvalendosi nella sentenza dell’interpretazione del Primo Emendamento, la Corte respingeva la restrizione preventiva del governo. In quella storica sentenza, la maggioranza dei giudici decretò che nel caso un giornalista e il suo giornale fossero entrati in possesso di un documento segreto del governo, non sarebbe spettato a quest’ultimo la decisione se dare l’autorizzazione o meno a pubblicare, ma solo al “Publisher”. Questo perché, veniva spiegato dai giudici, in democrazia il diritto dei cittadini a sapere è reputato prioritario rispetto a quello del governo di mantenere dei segreti che lo imbarazzano.
Per questo non poteva sorprendere vedere Ellsberg, fin dal 2010, diventare uno dei più accesi sostenitori di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, il sito specializzato nel diffondere documenti segreti che imbarazzano il comportamento dei governi nel mondo. Per Ellsberg, infatti, Assange non potrebbe essere incriminato dal governo degli USA perché il Primo Emendamento gli farebbe da scudo grazie a quella storica sentenza della Corte Suprema sui Pentagon Papers che riconosce al “Publisher” la sola autorità di decidere se pubblicare un documento ricevuto da una “fonte” del governo.
Al governo degli Stati Uniti, per poter legalmente processare e condannare Assange, diventerà essenziale dimostrare che il fondatore di Wikileaks non abbia semplicemente diffuso dei documenti segreti americani ricevuti dall’analista militare Chelsea Manning (poi graziato da Barack Obama), ma che fu lo stesso capo di Wikileaks il “mandante” dell’operazione di consegna dei documenti. Altrimenti Assange non potrebbe essere processato.
Ellsberg, anche in queste ultime settimane della sua lunghissima vita, concedendo interviste e intervenendo in conferenze on line ha continuato a difendere Assange (così come anche Snowden), considerandoli degli eroi per aver svelato segreti sulla condotta “fuori legge” di quei governi USA che invece, nel nome della sicurezza nazionale, continuerebbero a cercare di nascondere la verità.
La morte di Ellsberg arriva proprio nei giorni in cui si attende da una corte britannica la decisione finale sull’ordine di estradare Julian Assange negli USA dal Regno Unito, dove il fondatore di Wikileaks si trova in un carcere londinese.
L’emozione per la scomparsa di Ellsberg, celebrato oggi dai media americani come un eroe nazionale per quel suo voler sacrificare la vita in nome della verità contro le menzogne diffuse dal governo sulla guerra – quando prese la decisione di rivelare i Pentagon Papers, sapeva che avrebbe rischiato di trascorrere il resto della sua vita in prigione – potrebbe dare ulteriore forza a chi nell’Occidente democratico spinge da anni per la liberazione del fondatore di Wikileaks o, in alternativa, gli si faccia almeno scontare il resto della condanna in Australia, suo paese di nascita.