Massimo Russo è nato a Mazara del Vallo, venti chilometri da Castelvetrano, dove cresce il coetaneo Matteo Messina Denaro, figlio di don Ciccio, allora capo mafia locale. Forse Massimo e Matteo da ragazzi si saranno incrociati in qualche partita di pallone o in discoteca, ma le strade che prenderanno sono opposte: il primo si iscrive a giurisprudenza, il secondo inizia ad ammazzare e a scalare i vertici di Cosa Nostra.
Dopo la laurea a Firenze e le prime esperienze in magistratura, Russo torna in Sicilia e diventa discepolo di Paolo Borsellino alla procura di Marsala. Toccherà a lui occuparsi, dopo le stragi del ’92, delle indagini sul latitante Messina Denaro, che verrà catturato dallo Stato solo trent’anni dopo, quando viveva malato ma indisturbato a Campobello di Mazara, paese più vicino a Castelvetrano, nonostante quel nome. Intanto Russo, mentre dava la caccia a “‘u siccu” nei primi tredici anni della sua latitanza, era riuscito a far condannare Messina Denaro all’ergastolo; ad un certo punto stava per catturarlo, ma il lavoro di Russo fu tradito proprio da chi avrebbe dovuto lavorare per lo Stato.

Dopo una parentesi al ministero di Roma, Russo mise da parte la toga per raccogliere un’altra sfida: assessore alla Sanità della Regione Sicilia, governo Lombardo. Dopo quell’impegno politico, è tornato nella magistratura senza usufruire di scorciatoie: dopo alcuni anni a Napoli, è ora sostituto procuratore al Tribunale per i minorenni di Palermo.
Conosciamo bene Massimo Russo, siamo della stessa città. In questa lunga intervista senza freni, l’esperto magistrato della “scuola” di Borsellino mette a nudo la figura di Matteo Messina Denaro al di là di alcune “hollywoodiane” ricostruzioni giornalistiche. Inoltre, nel rispondere alle domande, Russo sottolinea certi aspetti fondamentali della storia della mafia in Sicilia e dei rapporti di Cosa Nostra con lo Stato italiano, dall’unità ad oggi.

Matteo Messina Denaro: 30 anni di latitanza. Lei fu tra i primi magistrati a dargli la caccia. Lo aveva scovato, trovando l’appartamento dove si incontrava con una delle sue amanti. Ma non riuscì a catturarlo. Chi aiutò il mafioso in quell’occasione? E’ stato punito?
“Fu l’unica volta in cui fummo ad un passo dalla sua cattura. Sviluppando le criptiche informazioni di alcuni pizzini sequestrati nel 1996 a due soggetti, proprio a Campobello di Mazara dove è stato catturato il 16 gennaio scorso, individuammo ad Aspra, una località a pochi chilometri da Palermo, un appartamento nel quale il latitante si incontrava con una donna, Maria Mesi che stavamo investigando nella massima segretezza. Ad un certo punto ci rendemmo conto, però, che il covo non era più frequentato e decidemmo nel giugno del 2000 di perquisirlo. Vi trovammo tracce del sicuro passaggio di Matteo Messina Denaro. Qualche anno dopo si scoprirà che quell’indagine era stata sabotata ad opera del maresciallo dei carabinieri Giorgio Riolo, capo della squadra del R.O.S. specializzata nell’installazione di microspie e dispositivi di intercettazione, che aveva eseguito un’operazione di “bonifica” del luogo, rilevando l’istallazione di una telecamera, per conto di un noto e ricco imprenditore, Michele Aiello, volto “pulito” di Cosa Nostra, presso cui lavorava Paola Mesi, sorella dell’amante del latitante. Si accerterà inoltre che lo stesso Riolo, nell’ambito di un altro filone delle indagini per la cattura del latitante, aveva riferito all’Aiello, al quale era legato da un rapporto corruttivo, che presso l’abitazione estiva di Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro, erano state installate delle microspie per le intercettazioni ambientali. Aiello e Riolo sono stati arrestati, processati e condannati. La loro sentenza di condanna ricostruisce un incredibile spaccato in cui i protagonisti, legati da un intreccio perverso di interessi politici, economici, mafiosi ed affaristici, agivano illecitamente in condizioni di sostanziale impunità assicurata dalla sistematica complicità tra mafiosi, la rete dei fiancheggiatori dei boss latitanti ed infedeli esponenti delle istituzioni”.
Altri mafiosi il cui covo era stato trovato, sfuggirono in quegli anni alla cattura. Uno su tutti, il capo dei capi Bernardo Provenzano che poteva essere arrestato ben 11 anni prima della cattura poi avvenuta nel 2006. Solo sfortuna?
“Nessuna sfortuna. Le circostanze dell’arresto di Totò Riina, la ritardata perquisizione della sua abitazione, le mancate occasioni della cattura di Bernardo Provenzano negli anni 90, la libertà di cui ha goduto un ricercato come Messina Denaro, costituiscono la parte più opaca se non torbida della storia dell’azione di contrasto dello Stato a Cosa Nostra. Ci saranno stati pure errori, inefficienze, valutazioni sbagliate ma, purtroppo, rimane il dato della inammissibile quanto vergognosa latitanza ultradecennale dei capi di Cosa Nostra che trova diretta spiegazione, innanzitutto, nel tradimento del giuramento di fedeltà allo Stato da parte di vari soggetti pubblici ( forze di polizia, magistratura, funzionari, amministratori, politici) e nel largo consenso e comunque compiacenza di cui la mafia, purtroppo, ha goduto e continua a godere in larghi strati della popolazione. E’ stato tutto ciò, prima ancora che indicibili patti o trattative, pur fondatamente ipotizzabili ed in effetti ipotizzate, che in realtà ha reso permeabile e più debole l’apparato statale.Rimane comunque un dato incontestabile: i capi di cosa nostra, e molti accoliti, hanno concluso la loro vita nelle patrie galere. E sarà anche questa la prospettiva per Messina Denaro Matteo”.

Il senatore Antonio D’Alì, a Palazzo Madama per un quarto di Secolo, fu nominato sottosegretario agli Interni nel governo di Silvio Berlusconi, quando era ben noto in provincia di Trapani che don Ciccio Messina Denaro, capo mafia padre del latitante Matteo, era stato “alle dipendenze” dei D’Alì e “protetto” i suoi terreni. Come è stata possibile una nomina in un posto così nevralgico del governo (sottosegretario agli Interni con delega ai trasferimenti di questori e prefetti) dal 2001 al 2006, non facesse scandalo? Matteo Messina Denaro era già allora il ricercato numero uno.
“La soglia dello scandalo e dell’indignazione in Italia è molto alta….! La storia dei rapporti tra la famiglia dei D’Ali e dei Messina Denaro ci riporta alle origini del fenomeno mafioso, nel rapporto tra campierato e proprietari terrieri, progressivamente evolutosi con l’urbanizzazione della mafia con conseguente trasformazione dell’originaria relazione fiduciaria tra mafioso e benestante in un rapporto o di assoggettamento o di contiguità. La sentenza di condanna di Antonio D’Alì per concorso esterno nel reato di associazione mafiosa conclama la sua contiguità a Messina Denaro Matteo e ad altri mafiosi del mandamento di Trapani . Ma di tale illecita vicinanza, oltre che dell’originario rapporto di campierato con il padre Francesco, non si sono evidentemente accorti, innanzitutto, gli elettori che gli hanno tributato una gran massa di voti quando lo hanno eletto al Senato della Repubblica e neppure il governo che lo ha nominato sottosegretario con delega di delicate funzioni che in concreto ha esercitato per sollecitare il trasferimento in un’altra provincia del Prefetto di Trapani Fulvio Sodano, reo, ai suoi occhi e a quelli di imprenditori collusi con la mafia, di fare gli interessi dello Stato adempiendo fedelmente ai suoi doveri. La morale di questa storia è che fino a quando la lotta alla mafia e alle sue nauseabonde collusioni sarà demandata esclusivamente alla magistratura sarà difficile “sentire la bellezza del fresco profumo di libertà” di cui parlava Paolo Borsellino”.

D’Alì, condannato con sentenza definitiva a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è entrato in un carcere di Milano un mese prima della cattura di Messina Denaro: solo una coincidenza?
“Non so se si tratti di una fortuita coincidenza, anche se, in generale, nelle vicende di mafia le coincidenze hanno sempre altre spiegazioni rispetto al mero dato temporale; in questo caso la singolare corrispondenza degli avvenimenti evoca, metaforicamente, il messaggio di una comune discesa dopo una comune ascesa: simul stabunt vel simul cadent, verrebbe da dire!”
Messina Denaro latitante c’è rimasto per trent’anni, e in tutti questi anni al governo non c’è stato solo il partito in cui militava D’Alì, ma anche e più spesso, il governo di centrosinistra: perché faceva paura la cattura di Matteo Messina Denaro? Che segreti sa il mafioso di Castelvetrano?
“Egli non è il mero detentore di informazioni segrete; Messina Denaro è il portatore di esperienze dirette essendo tra i protagonisti principali di gravissime vicende criminali che hanno attraversato la storia dell’Italia e dei suoi governi come le stragi del 92 e quelle del 93 che hanno fatto fibrillare la nostra democrazia. Vicende, queste, nelle quali è ancora processualmente irrisolto il nodo di eventuali mandanti esterni come quello delle relazioni istituzionali cui prima si è fatto cenno che potrebbe essere dipanato ove mai Messina Denaro decidesse di collaborare. In tale evenienza sarebbero in molti a fibrillare, a prescindere dalle appartenenze e dai colori politici”.

Lei crede che Matteo Messina Denaro sappia cosa ci fosse scritto nell’agenda rossa di Borsellino sparita?
“Mi sembra irrilevante se sappia o no; egli sa certamente molto di più di ciò che Borsellino ha appuntato nell’agenda misteriosamente scomparsa in via D’Amelio”.
La malattia: secondo lei, se Messina Denaro non si fosse ammalato, sarebbe stato preso?
“Penso che Messina Denaro non si sia consegnato allo Stato, come qualcuno ha maliziosamente insinuato, ma si è arreso alla sua grave malattia che lo ha costretto a cambiare stile di vita. Egli era consapevole di essere maggiormente esposto, dovendo necessariamente ricorrere a cure salvavita, e forse anche per questo, con un atteggiamento di sfida agli investigatori, ha condotto negli ultimi due anni una vita quasi normale nel territorio nel quale esercitava il suo potere, circondato e protetto dai sui fiancheggiatori.

Matteo Messina Denaro sembra essere una persona lontana dal clichè del mafioso al quale eravamo abituati con Riina e Provenzano; tenore di vita molto alto contrassegnato da abiti griffati, orologi costosi, viaggi, relazioni con diverse donne. Chi è veramente?
“Dopo l’arresto i media si sono molto soffermati sugli aspetti della sua personalità sganciandola però dal suo preciso profilo criminale quale emerge dalle diverse sentenze con le quali è stato condannato anche all’ergastolo. Si sta correndo il rischio, a mio avviso, di attivare una perversa fascinazione fornendo l’immagine di un boss che veste bene, seducente, latin lover che personifica nella realtà la figura cinematografica del Padrino, di cui peraltro sono stati rinvenuti nella sua abitazione i magneti che la riproducevano. Un’immagine quasi incompatibile con le atrocità e i misfatti di cui si è reso responsabile, con la conseguenza di suscitare in chi elabora superficialmente le informazioni, il dubbio che egli ne sia davvero l’autore. Matteo Messina Denaro è in realtà ciò che ci raccontano i delitti che ha commesso, perché di questo ci stiamo occupando e per questo lo abbiamo ricercato per 30 anni .E,’ innanzitutto, l’acido che ha dissolto il corpicino del povero Giuseppe Di Matteo, già martoriato dopo 2 anni di terribile prigionia; è il boato di Capaci, di Palermo, di Firenze di Milano che ha ridotto a brandelli i corpi di donne, uomini, bambini, di giudici, poliziotti e comuni cittadini; è lo sguardo terrorizzato della moglie di Giuseppe Montalto, l’agente di polizia penitenziaria ucciso davanti a lei, incinta, e alla loro figlioletta per fare un regalo di Natale ai mafiosi detenuti al 41 bis; è la vita sconquassata della famiglia di Rosario Sciacca falcidiato da colpi di fucile, rivoltella e kalashnikov mentre si trovava al lavoro con il vero bersaglio dell’azione punitiva; è il sogno spezzato di Nicola Consales ucciso per avere corteggiato inconsapevolmente la donna del boss; sono i sibili velenosi degli spari del kalashnikov all’indirizzo del mio amico Rino Germanà, funzionario di Polizia, salvatosi miracolosamente ; è il dolore acuto e perenne dei congiunti delle tante vittime di cui ha decretato la morte con le quali si vantava spavaldamente di potere riempire un intero cimitero. Questo è veramente Matteo Messina Denaro e a questo dobbiamo fare sempre rifermento quando parliamo di lui. Per rispetto delle verità, delle sue vittime e del dolore dei loro congiunti”.

Se avesse la possibilità di interrogare Matteo Messina Denaro, che cosa gli chiederebbe? Crede alla possibilità che il boss si penta prima di morire rivelando i suoi segreti?
“Dopo avere diretto le indagini sui crimini da lui commessi, averlo fatto condannare a diversi ergastoli, averlo ricercato per 13 anni, insomma dopo averlo in tal modo conosciuto profondamente, non posso negare che avrei voluto essere nuovamente nella “mia” Procura di Palermo per potere incontrarlo e interrogarlo, magari per cercare, nel rispetto della dignità che si deve ad ogni uomo, quel barlume di (disumana) umanità che per me rimane il fondamento di ogni collaborazione, anche se interessata. Lo faranno, e bene, il Procuratore Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido al quale lasciai il testimone delle indagini su Messina Denaro Matteo, nel luglio del 2007 allorquando cambiai funzioni. Se deciderà di collaborare secondo tutti i crismi previsti dalla normativa in tema di collaborazione con la giustizia, sarà di sicuro una grande occasione per perseguire verità sinora irraggiungibili mentre temo eventuali ed occasionali dichiarazioni spontanee che, invece, potrebbero avvelenare ed intorbidire lo scivoloso terreno della ricostruzione delle storie criminali della mafia e delle sue relazioni esterne. Potrebbe essere l’ultimo, devastante, colpo di coda che un criminale del suo calibro assesta allo Stato”.

Castelvetrano, centro nevralgico del potere mafioso: il primo pentito di mafia, il medico Melchiorre Allegra – le sue confessioni alla polizia fascista del 1937, vengono scoperte e pubblicate sul quotidiano L’Ora nel 1962 dal giornalista Mauro De Mauro, poi fatto scomparire dalla mafia – operava da Castelvetrano. Nel 1950, la “messa in scena” della morte di Salvatore Giuliano avviene proprio in un cortile di Castelvetrano… Insomma, è solo un caso che il corleonese Totò Riina scelga l’allora giovane figlio dello zu’ Ciccio Messina Denaro, come suo delfino? E’ solo una coincidenza il fatto che nel paese del trapanese famoso per le olive, i carciofi e i templi di Selinunte, ci sia anche un concentrato di “massoneria”?
“Esattamente un centro nevralgico, come lo è stata l’intera provincia di Trapani, vera roccaforte di Cosa Nostra corleonese. Basta rileggere le decine di pagine delle dichiarazioni resa dal dott. Melchiorre Allegra, una sorta di protopentito, per capire come la realtà mafiosa in quel territorio fosse ampiamente radicata – anche nelle sue relazioni con quella che oggi viene indicata, a mio avviso, riduttivamente, come la borghesia mafiosa – già ad inizio del secolo scorso. Passando anche dalle dichiarazioni rese nel 1958 da Luppino Giuseppe, un mafioso di Campobello di Mazara, ucciso pochi giorni dopo la sua confessione, ed arrivando ai mafiosi del trapanese che hanno collaborato con la giustizia soltanto a partire dal 1995, il quadro che si delinea è quello di un territorio in cui è stato presente una sorta di “stato” mafioso che ha convissuto con quello ufficiale, lo stato liberale, quello fascista e, infine, quello repubblicano. E la massoneria, ovviamente nella sua accezione deviata rispetto ai suoi nobili fini, ha costituito – anche per una certa affinità organizzativa con cosa nostra derivante dal vincolo di fratellanza, dal rito iniziatico, dalla segretezza – una specie di terra di mezzo in cui gli esponenti dei due stati, quello mafioso e quello ufficiale, si sono nel tempo, relazionati, confrontati, aiutati o contrastati, ora convivendo ora facendosi la guerra, come diceva Paolo Borsellino. E i Messina Denaro, prima il padre, dopo il figlio Matteo, sono stati almeno sin dagli anni 80, al vertice di quello stato mafioso e come tali sono stati ossequiati e riconosciuti anche da larga parte della comunità. Pronta ad aiutare e supportare il loro capo in difficoltà, come stanno svelando le indagini sui fiancheggiatori di Messina Denaro Matteo”.

Le “relazioni d’interessi” tra crimine organizzato e istituzioni, erano state già messe in mostra da Diego Tajani, ex procuratore generale di Palermo e poi deputato al Parlamento, che in un famoso discorso pubblico del 1875 (1875!) ben riportato dai giornali dell’epoca accusa il governo dicendo che “la mafia non è invincibile di per sè, ma lo sarà fino a quando resta ‘strumento di governo locale”. Sono passati 150 anni: cosa è cambiato?
“Molto è cambiato. Le stragi del 92 di Capaci e di via D’Amelio, l’uccisione di due magistrati come Falcone e Borsellino, hanno fatto comprendere con quale mostro conviveva il nostro paese. Vi è stata una presa di distanza generazionale dalla mafia e finalmente un’opera repressiva costante, articolata e ragionata accompagnata da un diverso “sentire” dei cittadini. Ma rimane ancora valida quell’espressione soprattutto in quei territori dove è ancora forte la cultura mafiosa che spinge i cittadini a chiedere ed ad ottenere più alla organizzazione mafiosa che allo stato che, però, spesso non dà. In tal modo si legittima chi strumentalmente si avvale di un vero a proprio apparato di welfare che si traduce inevitabilmente in consenso da riversare, al momento del voto, nel “giusto” candidato da eleggere nelle varie istituzioni democratiche, comune, regione, parlamento. Un circolo vizioso che solo lo stato può spezzare governando efficacemente i territori e, soprattutto, corrispondendo prontamente ai bisogni dei cittadini. Del nord come quelli del sud dell’Italia. Più Stato dove ci sono le mafie, con esponenti dal volto pulito e trasparente, ecco quello che ci vuole. Non vedo altre ricette”.

E’ stato stabilito una volta per tutte perché muore Falcone a Palermo e in quel modo invece che a Roma dove sarebbe stato molto più semplice? Perché poi deve morire Borsellino e sempre in quel modo così eclatante? Tutto frutto della sola megalomania criminale di Totò Riina? E tutti gli vanno sempre dietro, ubbidendo senza avere dubbi, incluso Matteo Messina Denaro?
“Queste domande appartengono a quei nodi ancora processualmente non sciolti mentre appare evidente la natura eversiva e terroristica delle nuove modalità imposte da Riina per la strage di Capaci e il perseguimento di ulteriori finalità con l’accelerazione dell’esecuzione dell’’attentato in via D’Amelio. Una strategia di attacco allo Stato per piegarlo alle pretese di cosa nostra. E’ certo che non fu (solo) la megalomania del suo capo indiscusso; ma chi lo assecondò? E con quali altri fini? Fu spinto surrettiziamente ad utilizzare quelle modalità affinchè si determinassero i presupposti per legittimare finalmente l’adozione di efficaci misure di repressione? Sostenerlo per sbarazzarsene? Da parte di chi? Solo soggetti nazionali? Domande, legittime, alle quali tuttora non corrispondono risposte giudiziarie. Ma i giudici non scrivono la storia e le sentenze ne costituiscono solo una parte, e nemmeno la maggiore”.
Questa fase dei primi anni Novanta di Riina è stata chiamata “stragista”, come se prima la mafia queste cose non le facesse… A parte la strage di Ciaculli del 1963, nel pieno centro a Palermo nel 1983 esplode l’autobomba che uccide il giudice Rocco Chinnici, la scorta e il portiere del suo stabile, attentato molto simile a quello in cui morì Borsellino. Perché dovettero passare tanti altri anni e il sacrificio di tanti altri magistrati e poliziotti prima che lo Stato arresta la mafia?

“Infatti, le stragi appartengono storicamente all’armamentario della mafia ma anche dell’eversione terroristica di destra, un connotato di particolari settori della criminalità che ha contrassegnato la nostra storia repubblicana. Le stragi di cosa nostra degli anni 90 presentano, tuttavia, una connotazione terroristica eversiva del tutto peculiare che alza, come si è detto, il livello dello scontro con lo Stato che reagisce come mai era avvenuto prima. Ma le stragi precedenti mostravano già in nuce ciò di cui era ulteriormente capace cosa nostra, ciò che avrebbe potuto fare e che concretamente ha fatto. Nella colpevole sottovalutazione dello Stato”.

Dott. Russo, anni fa ha dichiarato in una intervista pubblicata sul nostro giornale: “Va detto che il progetto della Direzione Nazionale Antimafia pensato da Falcone era ben diverso da quello effettivamente realizzato…”. Sarebbe forse cambiata la storia degli ultimi 30 anni di lotta alla mafia? Siamo ancora in tempo per una DNA come voleva Falcone?
“Non abbiamo la prova del contrario. Penso che l’assetto attuale, diverso da quello originariamente concepito da Falcone, abbia dato in ogni caso una buona prova. Sono state, infatti, proprio le direzioni distrettuali antimafia, collocate presso le procure dei capoluoghi dei distretti giudiziari, ad avere conseguito in questi 30 anni risultati eccellenti nell’azione di contrasto e di repressione del fenomeno mafioso. Un merito indubbio dello stato e della magistratura”.
In una intervista con “America Oggi” della fine degli anni Novanta, ci raccontò che l’allora boss mafioso di Mazara del Vallo, Mariano Agate, dopo essere uscito di galera, veniva salutato e riverito passeggiando nel corso della sua città mentre con lei, suo concittadino e magistrato che aveva indagato e processato Agate, in pochissimi si fermavano per salutarlo. E’ ancora così?
“Sono cambiate molte cose da allora e credo che una scena come quella difficilmente possa ripetersi. Sicuramente, non in pubblico, in modo così ostentato; chissà, magari in un luogo privato…”
La mafia, diceva Falcone, “è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Questa fine, dopo la cattura dell’ultimo grande latitante, è finalmente vicina?

“In questo momento in cui non mancano i dietrologisti che già paventano chissà quale trattativa sottostante a quella che, allo stato, sulla base dei fatti, costituisce una brillante operazione dei Carabinieri, è bene ribadire che la cattura di Messina Denaro Matteo costituisce un grande risultato dello Stato, dei tanti uomini delle forze di polizia e della magistratura impegnati da anni nelle sue ricerche. Una vittoria dello Stato contro cosa nostra, contro l’ala stragista della mafia rappresentata dall’ultimo dei grandi latitanti di mafia. Se si riuscirà a trasformarla anche in una vittoria contro quella parte delle istituzioni rappresentata da soggetti collusi con la mafia, la fine dell’organizzazione mafiosa sarà più vicina. Lo dobbiamo alle tante vittime, ai loro congiunti; lo dobbiamo a noi stessi e a tutti quelli che hanno subito la violenza e i condizionamenti di cosa nostra e non si sono piegati, nel nome del dovere e dello Stato. Io rimango fiducioso”.