Sono ormai appese a un filo le sorti del Governo britannico di Boris Johnson. L’ex sindaco di Londra, distintosi come uno dei principali fautori della Brexit, si trova ora alle prese con un terremoto interno alla sua stessa fazione politica, con sempre più colleghi conservatori che ne chiedono le dimissioni.
Lo scossone più forte si è verificato nella serata di martedì, quando a 10 Downing Street nel giro di pochi minuti sono arrivate le lettere di dimissioni del ministro del Tesoro Rishi Sunak, del ministro della Salute Sajid Javid e del sottosegretario alla Famiglia Will Quince. Nella mattinata di mercoledì ha lasciato anche il fedelissimo Michael Gove, responsabile del dicastero del Livellamento delle Disuguaglianze Territoriali.
Tutti e quattro membri di spicco del Partito Conservatore. Tutti in collera nei confronti di Johnson e dei suoi comportamenti scellerati, al limite (spesso valicato) dell’illegalità e della scorrettezza etica.
In una lettera aperta, il cancelliere uscente Sunak ha spiegato la scelta di fuoriuscire dall’esecutivo: “I cittadini si aspettano giustamente che l’attività di governo venga condotta in maniera corretta, competente e seria”, le parole del responsabile delle Finanze. Che ha quindi chiosato: “Credo che valga la pena di lottare per questi standards, ed è per questo che mi dimetto”.
Non è andata molto meglio mercoledì, giornata che il sistema parlamentare britannico riserva tradizionalmente al Question Time, ossia alle risposte orali del primo ministro alle domande dei deputati. In un’atmosfera infuocata, Johnson ha ricevuto rumorose bordate dai banchi dell’opposizione, dai quali i laburisti hanno urlato “Go! Go!” e hanno sottolineato l’inettitudine di Johnson a ricoprire cariche esecutive.
Ma è andata forse anche peggio dall’altra parte dell’aula (la sua). L’istrionico leader londinese è stato infatti contestato da alcuni deputati conservatori, a partire da Tim Loughton, che ha chiesto a Johnson se ci fosse qualcosa che lo avrebbe indotto a dimettersi. Nel corso della giornata Johnson ha inoltre partecipato a una riunione del cosiddetto “Comitato 1922“, che stabilisce le linee guida per le mozioni di fiducia e potrebbe determinare il suo futuro prossimo.
Eppure l’inquilino di Downing Street tira dritto: “Francamente il compito del premier in circostanze difficili, quando gli viene affidato un mandato colossale, è quello di proseguire”, ha detto Johnson durante il Question Time londinese.
Secondo i suoi collaboratori, il premier non ha alcuna intenzione di mollare la presa, anche a costo di misure politicamente spregiudicate. Nel frattempo l’ex sindaco di Londra ha prontamente sostituito i due ministri, nominando il suo capo di gabinetto, Steve Barclay, come segretario alla salute, e promuovendo Nadhim Zahawi dall’Istruzione all’Economia.
Ma il terreno sotto i piedi dell’ex enfant prodige della politica inglese è sempre più instabile. Non c’è solo la Scozia, che spinge per un nuovo referendum sull’indipendenza nel 2023. A pesare sono i livelli infimi di approvazione popolare: secondo un recente sondaggio di YouGov, il 69% dei britannici ritiene che Johnson dovrebbe dimettersi da primo ministro. Colpa non solo della sua linea politica, ma anche (e soprattutto) di innumerevoli gaffes che rendono il destino politico di BoJo irrimediabilmente segnato.
Nell’ultimo di una lunga serie di scivoloni, Johnson è stato costretto a scusarsi per aver promosso un collega di partito accusato di molestie sessuali al ruolo di supervisore della disciplina interna del partito. Ma l’apice è stato probabilmente raggiunto con la multa comminatagli dalla polizia londinese per aver violato le restrizioni anti-Covid adottate dal suo stesso Governo. E così, mentre nel resto del Paese non era nemmeno consentito ospitare i propri familiari, lo scorso 12 gennaio il suo esecutivo brindava senza mascherine e distanziamento nella residenza governativa a Downing Street.