Gli Stati Uniti hanno riconosciuto la persecuzione etnica dei musulmani rohingya in Birmania come un “genocidio”. A preannunciarlo erano stati alti funzionari anonimi della Casa Bianca al Washington Post, anticipando di poche ore il discorso che il segretario di Stato Antony Blinken ha tenuto lunedì allo U.S. Holocaust Memorial Museum della capitale statunitense.
Qualificare legalmente come genocidio la sistematica oppressione dei rohingya in Myanmar non comporterà, almeno nell’immediato, nuove sanzioni contro il Governo dello Stato del sud-est asiatico, che dal colpo di Stato del febbraio 2021 è guidato dal generale Min Aung Hlaing dopo la destituzione militare della civile Aung San Suu Kyi.
Proprio le forze armate attualmente al potere, note come Tatmadaw, dal 2017 si sono rese colpevoli di una persecuzione di massa contro la minoranza musulmana dei rohingya, concentrata specialmente nella regione occidentale di Rakhine.
I fatti sono attualmente allo studio della Corte internazionale di giustizia dell’Aia, dove il regime birmano è accusato di genocidio. La giunta ha sinora giustificato la repressione adducendo motivazioni di sicurezza e la necessità di rispondere agli attacchi di un gruppo musulmano ribelle.
Dall’agosto 2017 ad oggi, si stima che più di 700.000 rohingya siano stati costretti a fuggire dal Myanmar – Stato a forte maggioranza buddista – in campi profughi in Bangladesh. Alcuni tra questi sono vittime di stupro e/o scampati a uccisioni e incendi indiscriminati da parte dei militari birmani.
La ONG umanitaria Refugees International ha applaudito la mossa di Washington. “La dichiarazione di genocidio (…) è un passo gradito e profondamente significativo”, ha affermato il gruppo in una dichiarazione. “È anche un solido segno di impegno verso la giustizia per tutte le persone che continuano ad affrontare gli abusi della giunta militare fino ad oggi”.