Quanto sta accadendo nel quadrilatero geopolitico dove il burattinaio Vladimir Putin si gioca il futuro di zar di tutte le Russie, può essere compreso solo riandando per un istante con la memoria a quanto accadde tra la dissoluzione dell’Unione Sovietica (Urss) e l’ascesa putiniana al potere. Ucraina, Bielorussia e Kazakistan sono parte della stessa questione. Putin non poteva celebrare meglio il trentesimo anniversario della fine dell’Urss: mostra al mondo che la Russia è in grado di riportare indietro le lancette dell’orologio e riprendersi, a livello di sfera d’influenza, ciò che perse come sfera di sovranità. È anche un modo per arrivare da posizione di forza al bilaterale con gli Stati Uniti in agenda a Ginevra lunedì 10. È stato previsto per parlare soprattutto di disarmo, ma inevitabilmente dovrà vedersela con le tensioni ai confini russi.
Trent’anni fa, alle 18,35 del 25 dicembre 1991, mi capitò di trovarmi casualmente al cospetto della Storia, camminando sotto la torre del Cremlino mentre veniva ammainata la bandiera rossa con falce e martello e la stella rossa a cinque punte, e issato il tricolore della repubblica Federativa di Russia. Mezz’ora prima, Gorbačëv aveva passato la mano a El’cin. I moscoviti, come me col naso all’insù, non capivano molto di cosa stesse succedendo; da mesi erano sballottolati dentro i tumultuosi fatti del dopo colpo di stato di agosto contro Gorbačëv, ed erano abituati a subire più che a comprendere. Alle mie domande di straniero, giravano i tacchi e se ne andavano infastiditi, nel silenzio spettrale della sera di un inverno piuttosto rigido. Quella bandiera aveva sventolato per quasi sette decenni, nella venerazione di centinaia di milioni di persone, dentro e fuori dai confini sui quali si ergeva sovrana e intimidatoria. Veniva tirata giù con un atto inaspettato e subitaneo, resosi inevitabile per sovvertire la situazione paradossale nella quale l’uomo al comando dell’involucro sovietico svuotato di contenuto (Michail Gorbačëv) si negava da mesi a riconoscere che il vero potere era transitato nelle mani dei capi delle repubbliche federate, tra le quali primissima inter pares, l’immensa Russia controllata da Boris El’cin. A convincerlo non era servito neppure il patto di Belaveža dell’8 dicembre tra i presidenti delle repubbliche federate di Ucraina, Bielorussia e Russia, che dichiarava dissolta l’Unione Sovietica e la sostituiva con la Comunità degli Stati Indipendenti, Csi.
Se Gorbačëv falliva per aver voluto riformare l’irriformabile (il Partito comunista) e mantenere l’immantenibile (l’Urss con dominio russo sugli altri popoli), presto avrebbe fallito anche il maggiore fautore di quel golpe istituzionale, El’cin, complice – forse involontario e pur sempre complice – del disastro nel quale piombarono Russia e repubbliche (ex)sorelle dopo l’implosione dell’Urss.
Stati Uniti e il cosiddetto occidente, che avevano dato l’impressione di voler costruire con i riformisti russi un “Nuovo Ordine Mondiale” che desse finalmente latte e miele alla specie umana, cambiarono presto atteggiamento, umiliando in più occasioni il gigante russo ferito, dando a molti suoi dirigenti l’impressione di voler fare bottino pieno delle sue spoglie. Portare la Nato ai confini russi, fu l’atto che convinse Mosca, che nel frattempo era passata nelle mani del volitivo e analcolico Vladimir Putin, a non credere più ad un occidente “amico” e “cooperatore”. Era stato violato il cardine portante della geopolitica russa degli ultimi quattrocento anni: l’inviolabilità della cintura di sicurezza costruita in risposta ai grandi attacchi occidentali subiti tra l’inizio del secolo XVII e il 1941: le tre aggressioni polacca, francese, tedesca.
Putin fa il presidente, ma progetta di fare lo zar (per informazioni sulla procedura, rivolgersi alla chiesa ortodossa che, nel 1612, eseguendo la volontà del patriarca di Mosca Filarete – l’ex boiardo Feodor Nikitich Romanov – trasformò il figlio Michail nel primo zar della nuova dinastia imperiale che succedeva agli estinti Rurik). La sua priorità è stata, sin dall’inizio, la restaurazione. I pilastri su cui farla reggere sono stati e continuano ad essere i seguenti.
Interrompere lo scivolamento di territori ex sovietici o appartenenti alla sfera di influenza sovietica nell’orbita dell’occidente, in termini economici e geopolitici, e soprattutto militari. Si guardi in particolare ai comportamenti adottati verso l’Ucraina e la Georgia.
Stritolare ogni opposizione interna che possa costituire un’alternativa. I candidati a sbarrargli il passo hanno sinora fatto una brutta fine: incidenti di percorso li hanno portati all’altro mondo, o sono finiti in carcere. Alexej Naval’nyj è l’ultimo della serie. Rientrato in patria dopo essere stato curato da avvelenamento in Germania, è stato processato e spedito ai ferri, dove è previsto marcisca (per ora) sino al 2024.
Alimentare il nazionalpopulismo, attraverso il sostegno allo sciovinismo slavo e grande russo, e la stretta alleanza tra alta burocrazia dello stato, oligarchi economici, vertici ecclesiastici ortodossi.
Usare politicamente le risorse minerarie ed energetiche, facendone strumento per consolidare le alleanze interne (con gli oligarchi utili), e le alleanze internazionali utili al progetto. È anche come effetto di questa politica che sono saliti i prezzi del gas e viene agitato il Nordstream 2 come arma di pressione politica.
Rafforzare l’apparato delle Forze Armate e dei servizi, restituendo dignità e orgoglio di appartenenza ai quadri dell’Armata Rossa, e progresso tecnologico al suo armamento, dopo la grande demoralizzazione e lo sfacelo nelle caserme seguiti alla fine dell’Urss e all’orrenda crisi della transizione.
Cucire all’esterno alleanze strategiche e à la carte. Tra quelle strategiche, l’alleanza con le leadership delle comunità russofone sparse nel’ex Urss. Sono state utili per far rientrare la Crimea in territorio russo e tenere sotto scacco la regione mineraria del Donbass ucraino. Sono state utili per le interferenze in paesi alleati come Bielorussia e Kazakistan, oltre ad altre repubbliche dell’Asia centrale.
Strategica risulta anche l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) attiva dal 2002, cui aderiscono, con la Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan: con la Serbia osservatore dal 2013. Dal 2007, Csto ha un accordo operativo con Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, formata, con la Russia, da Cina e paesi dell’Asia centrale, centrata sulle questioni della sicurezza regionale.
Adeguando ai tempi il copione delle repressioni sanguinose eseguite dall’Urss negli anni di guerra fredda su chiamata dei partiti “fratelli” al potere nell’Europa centro orientale, Ctso ha inviato in Kazakistan 3.000 uomini a difesa del presidente Kassym-Jomart Tokayev, in difficoltà di fronte alle violente proteste di piazza, contribuendo al bilancio dei violentissimi scontri che, alla sera kazaka del 9 gennaio, ammonta a più di 160 morti (includono due bambini) e più di 5.000 arresti tra i quali quello dell’ex capo della sicurezza nazionale Karim Masimov, due volte primo ministro.
Tra le alleanze à la carte, le “creative” alleanze con la Turchia (paese tuttora membro della Nato!), e con la Cina (paese, però, con interessi geostrategici da sempre conflittuali con la Russia), prima bozza di un possibile progetto di alleanze di interessi tra regimi nazionalistici e autoritari.
Agitare la minaccia del terrorismo, a tutela della restaurazione. Lo ha fatto in questi giorni, sull’esempio di Putin, il presidente kazako, che altrimenti non avrebbe potuto chiamare russi e Csto in suo soccorso, visto che l’accordo Csto prevede l’eventualità di supporto militare diretto a un governo membro da parte di alleati solo se richiesto in occasione di un attacco dall’esterno. Il terrorismo internazionale, in questo caso, è stato l’escamotage per rendere legale la presenza in territorio kazako di militi russi.
Boicottare le democrazie, in primo luogo l’Unione Europea, in quanto modello possibile e realizzato nel continente europeo di società pacifica, libera, e ricca; inevitabile polo di attrazione per qualunque popolo voglia sfuggire alle grinfie dell’orso russo. L’Euromaidan ucraina insegna. Putin attua questo boicottaggio, finanziando i partiti delle destre nazionalpopuliste (in Italia risultano soldi russi alla Lega di Salvini e al Movimento 5 Stelle), e con la vecchia cara dezinformatsiya di sovietica memoria, attraverso le reti informatiche e i social media.
I fatti dell’attualità che riguardano l’ammasso di truppe alla frontiera ucraina e l’intervento in Kazakistan nei primi giorni di gennaio, come nei mesi scorsi l’appoggio dato a Lukashenka quando ha subito le proteste per le elezioni che l’opposizione ha definito truccate, accadono all’interno di un disegno restauratore che Putin porta avanti con lucidità unita a spietatezza.
Sempre più spesso si trova accanto il leader cinese Xi Jinping, con il quale organizza manovre militari congiunte: anche manovre navali, in Mediterraneo oltre che nel Pacifico. Lo ha avuto accanto in occasione della repressione kazaka, quando Xi ha voluto approvare in pubblico la decisione del presidente kazako di far sparare sui manifestanti ad altezza d’uomo per uccidere.
Nella zona centro-asiatica il terzetto formato dal dispotico Xi, dall’autoritario Putin e dal velleitario Erdogan, va tenuto d’occhio. Appaiono alleati, ma in realtà competono per un’egemonia che – si osserva – nessuno di loro è destinato a conquistare. Tradotto in soldoni significa che i tre sono elementi di disordine e squilibrio, generatori di crisi.
Recep Tayyip Erdogan, sultano mancato, è il più debole, anche perché non essendo ancora riuscito a smantellare completamente le istituzioni della repubblica laica khemalista, rischia ad ogni libera elezione politica di rimetterci le penne. Il suo sogno di ricostruire la grande area ottomana non ha nessuna prospettiva, nonostante la realizzazione del Consiglio di Cooperazione degli Stati di lingua turcica (Consiglio Turcico) del quale fanno parte, con la Turchia, Uzbekistan, Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan. I legami culturali e religiosi che rivendica appaiono come il classico vaso di coccio tra i due vasi in ferro della forza economica cinese e della forza militare russa: garante – l’ultima – della sicurezza regionale.
La partita si giocherà, alla fine, tra Pechino e Mosca, due capitali che in politica internazionale mantengono da decenni un atteggiamento sostanzialmente moderato e non aggressivo, almeno rispetto alla forza di cui dispongono. Il che è un elemento tranquillizzante. Altra cosa è l’inadempienza continuata che le due capitali ribadiscono, nei confronti dei diritti politici, sociali, ed umani delle popolazioni che amministrano, e l’aggressività finalizzata all’egemonia che manifestano verso i vicini.
Il fatto è che la rottura della fase di “amicizia” internazionale seguita al collasso dell’Urss, ha avuto, tra i tanti effetti, quello di cancellare le occasioni di riforma in senso democratico che, allora, si andarono espandendo in molte aree del globo, Asia centrale e territori già sovietici inclusi.
Il cosiddetto occidente ha ben poco da offrire in positivo, oggi, per riportare le dittature vecchie e nuove a praticare il rispetto dei diritti politici e dei diritti umani. Infatti, agisce solo in negativo, attraverso sanzioni e divieti che somigliano molto all’abbaiare del cane che non ha più i denti per mordere. Ricordano il racconto sul tizio che tornando tra gli amici, claudicante e col viso gonfio di ematomi, esclama convinto: “Effettivamente me ne hanno date! Ma quante gliene ho dette!”.