Spulciando le sue dichiarazioni dei redditi, tra il 2014 e il 2018 il sig. Jeff di Medina, WA ha pagato un’aliquota fiscale effettiva dello 0,98%. Il che significa, in sostanza, che meno dell’1% della ricchezza guadagnata ogni anno è finito nelle casse dell’erario. Una percentuale che farebbe impallidire anche i più ferventi fautori di flat tax e night-watchman state, che a confronto apparirebbero una comitiva di bolscevichi dirigisti. Ora aggiungete che il sig. Jeff ha scelto di vivere ad appena 8 miglia di distanza dal quartier generale della sua società, una multinazionale dell’e-commerce con sede a Seattle (ricorda qualcosa?). Si tratta di un’impresa che tra il 2014 e il 2018 ha generato un giro d’affari ($738 miliardi) grossomodo equivalente al PIL dell’Arabia Saudita. E aggiungeteci pure che il sig. Jeff, che di cognome fa Bezos per chi non l’avesse capito, tra 2014 e 2018 ha guadagnato a titolo personale la bellezza di 99 miliardi di dollari.
Se i conti sono tutti esatti, dovreste avere la soluzione: $973 milioni pagati all’IRS a fronte di $990.000 milioni guadagnati. Se si applicasse la stessa logica alla famiglia media USA, questa pagherebbe in tasse appena il 5% di quello che le viene richiesto abitualmente dagli esattori di Washington. Un esempio scolastico? La famiglia Smith, che ha un reddito medio annuale di $67.521, teoricamente ne versa in tasse quasi 15.000, a causa dell’aliquota progressiva del 22%. Se gli Smith applicassero l’aliquota Bezos, dovrebbero staccare un assegno di soli 661 dollari. La metà di uno smartphone di ultima generazione.
L’aliquota Bezos, però, non sembra essere valida per il resto della popolazione. Né tantomeno per il solo Bezos, dato che alcuni sono riusciti a fare lo stesso, se non di meglio: ad esempio il rivale miliardario Elon Musk, assurto a guru della Gen Z e pioniere dello spazio. Sulla Terra, invece, nel 2018 Musk non ha versato nemmeno un centesimo di imposte sul reddito (traguardo che anche Bezos, a onor del vero, era riuscito a tagliare nel 2007). Ma il Nobel per le magie fiscali dei super-miliardari va senza dubbio a George Soros, l’imprenditore ungherese-statunitense al centro di dietrologie politiche di ogni sorta, e che per ben tre anni di fila non ha messo mani al portafoglio a fronte di un patrimonio personale di 8,6 miliardi di dollari. Un quasi-record (tra i giganti) che in molti hanno cercato di superare – l’ex sindaco newyorkese Michael Bloomberg e l’imprenditore Carl Icahn tra i più agguerriti pretendenti – ma che resiste ancora.
Quella dei mega-ricchi statunitensi e delle loro maniere creative per eludere le tasse è una storia lunga almeno un secolo. Peraltro, di vera e propria “elusione” si può parlare tenendo in considerazione che gli schemi hanno in realtà un costo occulto: le esose parcelle da corrispondere a pletore di avvocati e fiscalisti specializzati che riescono a muoversi nella Babilonia fiscale a mo’ di Tarzan nella giungla delle scimmie. Considerando le masse di denaro in gioco, comunque, l’equivalente di un trancio di pizza al formaggio.
Una lunga inchiesta di ProPublica si è concentrata in particolare sulla parabola elusiva di tre famiglie che costituiscono l’essenza dell’American Dream: gli Scripps, i Mellon, e i Mars. Secondo Forbes, la loro ricchezza combinata supera i 114 miliardi di dollari. Tre dinastie plutocratiche che, però, non risultano davvero tali dai registri dei contribuenti. C’è un’imposta in particolare a cui le famiglie sembrano essere allergiche: quella di successione. Introdotta dal Congresso nel 1916, il suo scopo è prelevare una parte del patrimonio trasferito dal defunto agli eredi nelle famiglie più facoltose. Attualmente la misura si applica solo ai redditi superiori ai $11.700.000, e a pagarla sono appena in 1.275 in tutto il Paese. I più furbi, invece, preferiscono ingaggiare professionisti per trovare maniere creative (e ai confini della legalità) per aggirare l’obbligo, quasi tutte consistenti nel trasferire i fondi quando il testatore è ancora in vita.
Dopo anni di interpretazione creativa del diritto, i magnati sembrano aver finalmente identificato il sacro Graal dell’elusione fiscale: il loro nome tecnico è grantor retained annuity trusts (trusts di rendita trattenuti dal concedente), in sigla GRAT, uno strumento societario che permette di “congelare” il patrimonio in un trust per metterlo al riparo dall’imposta di successione (titolare formale della somma è infatti il trustee, che non è un erede). L’unica tassa da pagare è quella per costituire il trust stesso. La cifra depositata nei GRAT, inoltre, genera interessi su cui il fisco non può mettere naso. Quindi, se un patrimonio di 200 milioni di dollari genera un interesse annuo del 3%, non solo gli eredi non pagheranno imposte di successione fintantoché la somma è al sicuro nel GRAT, ma intascheranno anche 6 milioni di dollari netti esentasse. Quello dei trusts (e dei GRAT) è un istituto giuridico disciplinato dal diritto dei singoli stati. Normalmente, ogni trust ha una scadenza, al sopravvenire della quale i fondi vengono assegnati dal trustee al beneficiario finale (gli eredi). Tuttavia, per attrarre società e ricchi alcuni stati hanno preso a disapplicare uno dei pilastri del common law anglo-statunitense, la rule against perpetuities, che impedisce di protrarre un trust oltre 21 anni dopo la morte dei beneficiari originariamente designati. Un affare perpetuo, insomma.
Lo scandalo fiscale riaffiora periodicamente sulla stampa, ma con scarsi effetti pratici. Nel 1924 diversi quotidiani pubblicarono in prima pagina le tasse pagate dai più potenti imprenditori e politici statunitensi: inter alios, ne uscì fuori che il ricchissimo banchiere J.P. Morgan pagava meno tasse ($98.643) di un suo socio junior. Anche i numerosi tentativi del Congresso di tenere il passo dell’aristocrazia a stelle e strisce hanno sortito effetti irrilevanti – non da ultimo perché a scrivere le leggi a volte sono stati proprio i presunti elusori; oppure, i soldi dei trusts sono stati spesi per foraggiare lobbies anti-tasse (come nel caso dei Mellon ai tempi della Reaganomics). Non bisogna riavvolgere le lancette troppo indietro: basta tornare allo scorso autunno, quando i membri democratici del Congresso hanno proposto una tassa sui miliardari e una stretta sui loro sotterfugi fiscali. La controffensiva delle lobbies è consistita nel far credere ai cittadini statunitensi che la misura danneggiasse agricoltori e piccoli imprenditori (dato statisticamente travisato, per non dire falso). A far naufragare la proposta di legge è stato, insieme ai repubblicani, il no decisivo del dem Joe Manchin. Forse sotto suggerimento di un suo ex alto consigliere, ingaggiato per l’occasione dalle stesse lobbies anti-tasse a libro paga delle dinastie del dollaro.
Oltre ai GRAT, un altro stratagemma impiegato abitualmente dai super-ricchi, e svelato in altre inchieste della solita ProPublica, consiste nel compensare il proprio reddito imponibile con spese o perdite. In sostanza, alcuni milionari/miliardari hanno scoperto che, spendendo a fondo perduto somme di denaro in determinate attività (imprenditoriali o filantropiche), potevano ricavarne abbastanza deduzioni per far passare in cavalleria i restanti guadagni e patrimoni. Così, aver perso circa $600 milioni al Kentucky Derby si è rivelato l’affare della vita per sei famiglie di milionari che possedevano altrettanti cavalli: le perdite hanno infatti consentito loro di non dover pagare imposte sulle decine di milioni che già possedevano, deducendo sia il costo di mantenimento degli animali che il rosso accumulato. A volte le perdite si rivelano una vera e propria manna dal cielo: così è stato per Ty Warner, l’imprenditore di giocattoli che grazie alla “visionaria” scelleratezza imprenditoriale (perdite superiori ai guadagni) nel settore alberghiero non ha pagato imposte sul reddito per ben 12 anni.
L’élite statunitense ha insomma fatto incetta di deduzioni previste dal regime tributario nazionale, registrando perdite ad hoc per non pagare imposte sul reddito – o pagarne una minima parte. Gran parte dei “furbetti” si concentra nei settori degli immobili commerciali o dell’energia. E tra questi sembrebbe esserci anche l’ex presidente Donald Trump, che alle spalle conta una serie di fallimenti e nel 2016 avrebbe pagato appena 750 dollari di imposte sul reddito. L’ex presidente si è ripetutamente rifiutato di svelare le sue dichiarazioni dei redditi dal 2015 al 2020, ma un giudice federale ha recentemente stabilito che il Congresso potrà accedere ai documenti.
Tra i casi più particolari c’è infine quello dell’imprenditrice texana Phyllis Taylor. Dal 2004, dopo la morte del marito Patrick, la sig.ra Taylor ha ereditato la direzione di una società energetica, la Taylor Energy di New Orleans, ritenuta responsabile del più duraturo e consistente sversamento di greggio nelle acque del Golfo del Messico, avvenuto in conseguenza dell’uragano Ivan del 2004. Ebbene, dal 2005 al 2018 la signora ha applicato il sempreverde trucco: le somme impiegate dalla società per ripulire (per quanto possibile) il Golfo sono infatti servite a non farle pagare imposte sul reddito per 14 anni.
Una catastrofe per la collettività divenuta benedizione per pochi eletti. Metafora perfetta di un intero sistema fiscale.