Un copione già scritto. Dopo l’annuncio del ritiro dei soldati americani dall’Afghanistan, era evidente che i talebani avrebbero cercato di tornare al potere al più presto. Nessuno forse si aspettava che avrebbero conquistato in così poco tempo, tanti distretti e in un solo giorno 3 città. Nessuno pensava soprattutto che oltre a Sar-i-Pul e Taliqan, anche la città di Kunduz, stretegico centro commerciale, potesse capitolare nelle mani dei guerriglieri integralisti.
L’offensiva talebana non si ferma, si combatte ovunque e il cerchio si sta stringendo attorno ad altre città, mentre da Washington si assiste alle tragiche conseguenze del proprio ritiro. La caduta di Kunduz, scrive il New York Times, è il segnale che la guerra in Afghanistan è davvero finita. Niente farà cambiare idea a Biden che ha scelto di far tornare a casa i suoi soldati contro la volontà dei generali del Pentagono, assicura la sua portavoce Jen Psaki. Nessun militare si è schierato a favore di questa scelta, frutto dell’accordo di Trump con i talebani a Doha. Un accordo scellerato che ha elevato gli studenti coranici dallo status di terroristi a quello di interlocutori, al pari del governo di Kabul eletto con libere elezioni, ma tenuto fuori dagli americani dalle trattative di pace, nella fase iniziale.
Riusciranno l’esercito e le forze di sicurezza afghane a tenere testa ai talebani senza il supporto militare degli Stati Uniti, che ieri sono intervenuti bombardando con dei droni, ma che dalla fine del mese cesseranno ogni attività in Afghanistan?
Milizie private degli influenti capi delle tante tribù stanno facendo quadrato attorno al fragile governo di Kabul, ma quanto riuscirà a reggere il presidente Ashraf Ghani? La Cina intanto guarda sorniona agli sviluppi afghani e si prepara ad un futuro per lei roseo, senza più un governo filoamericano a Kabul. I giorni scorsi ha invitato una delegazione talebana a Pechino per colloqui sul futuro del paese e c’è da scommettere che al primo posto ci sia stata la riapertura della via della seta che passava sotto i due magnifici Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani nel 2001. Ma quelli erano altri tempi, ora i guerriglieri coranici si sono evoluti e sanno di avere bisogno di infrastrutture se vogliono governare il paese in modo diverso dal passato. Gliele fornirà la Cina che ha un pezzo di confine con l’Afghanistan nella provincia dello Xinjiang dove vive una minoranza musulmana, gli Uiguri, da sempre perseguitata.
Si tratterà anche sui loro diritti. Dei diritti delle donne nessuno parla più e migliaia di famiglie sono in fuga dai combattimenti e da un futuro inquietante. Gli afghani hanno ricominciato a lasciare il paese, mentre i talebani premono minacciosi su Kandahar, la seconda città dell’Afghanistan ma anche la più simbolica, da dove era partita negli anni 90 la loro ascesa verso la conquista di Kabul. Se cadrà anche Kandahar, forse gli Stati Uniti dovranno ripensare al loro ritiro. Difficile che Biden riesca a girare la testa dall’altra parte, anche se sa di avere gli americani dalla sua parte nella decisione di far tornare a casa i soldati Usa.
Kabul non può cadere. Ci sono le ambasciate, ci sono le Nazioni Unite. A protezione dell’ambasciata americana nella capitale sono stati lasciati 650 marines. A garantire l’apertura e la sicurezza dell’aeroporto della capitale ci sono le truppe turche della Nato, che non piacciono ai talebani. Un nuovo capitolo si è aperto ed è ormai chiaro che in Afghanistan si sta combattendo una guerra civile. Il destino degli afghani, ormai soli, è nelle loro mani.