L’Italia ammaina la sua bandiera dalla base di Herat dove ha sventolato per quasi 20 anni. Anche i soldati italiani, insieme a quelli americani e a quelli della NATO tornano a casa e lasciano l’Afghanistan al suo destino. Non è una partenza indolore, abbiamo avuto 53 morti in questi due decenni, 2354 i soldati americani deceduti, abbiamo speso trilioni, ma non siamo riusciti a rendere il paese stabile e democratico.
Sono mesi che si combatte in varie province e il ritorno dei talebani è dato per scontato. Legittimati da due anni di trattative di pace con gli americani a Doha in Qatar, i talebani sono pronti a tornare al potere in una veste più presentabile. Oggi non dicono più che le donne debbano stare chiuse in casa e indossare il burqa, che non debbano né studiare né lavorare. Oggi affermano di credere nei loro diritti, ma il lavoro sporco lo fanno fare ai tagliagole afghani affiliati allo Stato Islamico che da mesi stanno compiendo attentati mirati contro giornaliste, magistrate, dottoresse, studentesse insegnanti e poliziotte. I talebani li lasciano fare, negano di avere responsabilità nelle stragi, ma nessun gruppo terroristico potrebbe agire senza il loro via libera, visto che controllano il 50 per cento del territorio afghano.
Ci ritiriamo dall’Afghanistan da sconfitti, non a caso il paese è conosciuto come la Tomba degli Imperi. Resteranno solo i turchi come forza Nato a presidiare l’aeroporto, condizione posta dai paesi occidentali per continuare a mantenere aperte le proprie ambasciate. L’Australia ha già chiuso la sua rappresentanza diplomatica. Non c’è generale americano che sia d’accordo con la decisione di Biden e prima ancora di Trump di chiudere del tutto le basi militari e abbandonare il paese, nel cuore dell’Asia. Il governo afghano è ancora troppo fragile politicamente e l’ esercito è altrettanto debole per difendere le istituzioni dall’avanzata dei talebani.
Le forze di sicurezza afghane stanno combattendo, ma senza la copertura aerea americana ce la faranno a mantenere il controllo? Saranno i droni e l’intelligence a garantire che l’Afghanistan non si trasformi in un nuovo paradiso per terroristi come era diventato prima degli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. Basterà?
Difficile che possa bastare in un paese che solo gli afghani sanno dominare, circondato da nazioni che non hanno alcun interesse ad ospitare avamposti americani, in caso si rendesse necessario intervenire rapidamente in Afghanistan, dall’Iran alla Cina alle ex repubbliche sovietiche, al Pakistan. Una presenza militare gli Usa dovranno comunque lasciarla per proteggere la loro ambasciata a Kabul, visto che secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 1 giugno, Al Qaida continua ad essere presente in varie aree del paese, alleata con i talebani. Nel frattempo tonnellate di materiale militare americano vengono quotidianamente caricate sugli aerei da trasporto e trasferite verso la base di Doha.
Il ritiro ufficiale è fissato per l’11 settembre, data simbolica che ha cambiato il mondo, ma gli Stati Uniti sono già a buon punto del loro trasloco. Tremano le donne che temono per il loro futuro e tremano tutti gli afghani che hanno collaborato con gli eserciti internazionali occidentali. Agli interpreti e allo staff di supporto alle truppe gli Stati Uniti hanno garantito l’asilo anche per i loro familiari. I talebani in modo sibillino hanno affermato che non devono preoccuparsi se sceglieranno di vivere come afghani normali in patria. Resta da capire cosa sia la normalità per chi lapidava le donne allo stadio nell’intervallo tra i due tempi di un incontro di buzkashi, lo sport nazionale afghano dove i cavalieri devono colpire una testa di capra.