Shylock: si può cominciare da qui. È un personaggio de “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare: un immaginario usuraio ebreo veneziano. C’è chi lo “vede” come la descrizione del maledetto, risultato della cultura cristiano-occidentale, da sempre venata di anti-ebraismo, e più che mai ai tempi del “Bardo”. Chi scrive è propenso a ritenerla invece una figura tragica, attraverso la quale Shakespeare veicola una verità controcorrente. A sostegno di questa interpretazione il famoso monologo di Shylock, nella prima scena del terzo atto:
“Egli m’ha vilipeso in tutti i modi, e una volta m’ha impedito di concludere un affare per un milione. Ha goduto per le mie perdite e ha dileggiato i miei guadagni, ha disprezzato la mia razza, ha intralciato i miei buoni affari, ha allontanato da me i miei buoni amici e mi ha aizzato contro i nemici! E tutto questo, per quale ragione? Perché sono ebreo! E dunque? Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci pungete non versiamo sangue, forse? E se ci fate il solletico non ci mettiamo forse a ridere? Se ci avvelenate, non moriamo?…”.
Un altro libro, ora: il “Talmud babilonese”, conosciuto anche come “Talmud Bavlì”; redatto nelle Yeshivot della Mesopotmia tra il terzo e il quinto secol; un testo inizialmente redatto da Rav Ashi, fondatore della yeshiva di Sura; e terminato con Ravina II, ritenuto l’ultimo esegeta degli Amoraim.
In questo libro da tanti considerato sacro, e sul quale da secoli tanti si spaccano gli occhi, a un certo punto ci si imbatte in una frase che grazie al film di Steven Spielberg “Schindler list” è diventata una sorta di manifesto: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Evoca una leggenda: in qualunque epoca della storia dell’umanità, ma in particolare nei periodi più bui e tragici, ci sono sempre Trentasei Giusti, persone speciali. Se non ci fossero queste persone (e devono essere sempre e comunque trentasei), il mondo finirebbe. Una credenza che si basa su una dichiarazione talmudica: in ogni generazione trentasei “accolgono la Shekhinah”, la presenza divina. L’identità dei trentasei è ignota, loro stessi non sanno di esserlo. Può accadere che qualcuno di loro giunga a comprendere lo scopo vero della sua “missione”, per questo potrebbe morire, ed essere immediatamente sostituito da un altro Giusto.
Sono nati Giusti, non possono ammettere l’ingiustizia; per amor loro che Dio non distrugge il mondo. Sono persone all’apparenza uguali a noi; forse sono “solo” più coraggiose, o pietose, fate voi. Avvertono il dovere etico di prodigarsi per un prossimo perseguitato e sofferente, a rischio della loro stessa vita.
Lo fanno e spesso lo si viene a sapere molti anni dopo, quando sono già morti. Sono loro che salvano l’umanità.
Chiunque visita Israele non può esimersi da una visita a Yad Vashem; è l’Ente nazionale per la Memoria, istituito per “documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria di ognuna delle sei milioni di vittime”; e parallelamente, per ricordare e celebrare i non ebrei di diverse nazioni che rischiarono le loro vite per aiutare gli ebrei durante la Shoah; al 1° gennaio 2019 sono 27.362 questi “Giusti”. Il Memoriale è stato costruito sul versante occidentale del Monte Herzl, il museo storico occupa un’area di oltre quattromila metri quadrati, per lo più le sue strutture sono sotterranee: archivi storici, istituti di ricerca sulla shoah, la scuola per gli studi sull’olocausto, la grande biblioteca… Non c’è visitatore che non ne esca straziato e mutato nel suo intimo; ed è per questo che la “visita” viene caldamente raccomandata e favorita. L’espressione “mai più”, acquista il suo significato più vero e profondo.
Shoah: sta per “tempesta devastante”. Il termine lo troviamo nell’undicesimo versetto del quarantasettesimo capitolo del libro del profeta Isaia: “… Ma verrà sopra di te un male che non saprai come scongiurare; ti piomberà addosso una calamità che non potrai allontanare con alcuna espiazione; ti cadrà improvvisamente addosso una rovina che non potrai prevedere”.
Oggi, quando si parla di Shoah, si intende il programmato (e largamente attuato) sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti e i loro alleati: fra il 1939 e il 1945 circa sei milioni di ebrei sistematicamente uccisi. L’obiettivo dei nazisti è quello di creare un mondo più “puro”, “pulito”. Alla base dello sterminio, un’ideologia razzista, specificamente antisemita che affonda le sue radici nel diciannovesimo secolo. I nazisti, a partire dal “Mein Kampf” (“La mia battaglia”), scritto da Adolf Hitler nel 1925, pongono a fondamento del loro delirante progetto la costruzione di un mondo “purificato” da tutto ciò che non sia “ariano”. È la cosiddetta “soluzione finale”, ovvero lo sterminio programmatico degli ebrei. Le leggi di Norimberga del 1935 sono il prodromo. Si comincia con il boicottaggio economico, con l’esclusione e l’emarginazione degli ebrei; nel 1938 la “notte dei cristalli”: in tutta la Germania vengono date alle fiamme le sinagoghe e devastati tutti i negozi ebraici; e progressivamente si arriva alla conferenza di Wannsee, nel gennaio 1942: i vertici nazisti danno il via allo sterminio sistematico. La “soluzione finale” prende il via in Germania; viene poi estesa in tutti i paesi occupati dalle truppe del Terzo Reich, sono ben pochi i paesi europei che vengono risparmiati da rastrellamenti, deportazioni, massacri. In una prima fase gli ebrei vengono forzosamente concentrati in ghetti, il più tristemente conosciuto è quello di Varsavia, in Polonia. Si procede poi alla deportazione nei campi di sterminio: Auschwitz, Treblinka, Dachau, Bergen Belsen Mauthausen, i più noti. Ma ce ne sono molte altre decine, disseminati in Europa. Il massacro è pianificato con teutonica precisione: ogni giorno nei campi giungono convogli con vagoni sui quali sono stipate migliaia di deportati. Una prima selezione salva temporaneamente quanti sono in condizione di lavorare; gli “scartati” sono direttamente inviati nelle camere a gas. Altri, più sfortunati, devono patire inenarrabili torture, cavie umane per i folli esperimenti come quelli effettuati sui gemelli da Josef Mengele, non per caso soprannominato “l’angelo della morte di Auschwitz”.
Incarnazione del Male e della malvagità, Mengele. Si occupa dei suoi prigionieri a tempo pieno: li seleziona, può decretarne la vita o la morte a seconda dell’umore. Frequenti i suoi sbalzi d’umore, indice di una persona schizofrenica e malata. Miklòs Nyiszli, medico anatomo-patologo, autore di “Memorie di un medico deportato ad Auschwitz”: “A volte si sentiva particolarmente ben disposto verso gli altri, ed in quelle occasioni manifestava sentimenti umani”. Come la voltain cui si imbatte in una giovane e bella ebrea disperata, che vuole raggiungere il “gruppo di sinistra”, dove c’è la madre. Mengele rimprovera aspramente la ragazza, ordina che sia spostata in quello di destra. Qualche ora dopo la ragazza capisce che Mengele le ha salvato la vita: il gruppo ha sinistra è stato gasato. Episodi rarissimi, tuttavia. Lo stesso Mengele, di fronte alle suppliche di un ragazzino orfano non sente ragioni: “Al gas! In ogni caso, deve morire!”.
Una vera e propria ossessione, quella di Mengele per i gemelli: l’ordine è di curarli e alimentarli allo stesso modo; devono morire (meglio: essere uccisi) in buone condizioni, e nello stesso istante. Mengele trascorre ore a scrutare ogni parte del corpo dei poveretti, pensa di scoprire in questo modo il segreto per la moltiplicazione della razza: “Ogni madre ariana, con un parto gemellare, potrà fornire un individuo in più alla razza la cui vocazione era quella di dominare le altre”. Ritiene “allettanti” nani e zingari affetti da una malattia della pelle, il noma: un tumore del viso che gradatamente lacera i tessuti fino a lasciare completamente scoperte le membra della persona affetta. Auschwitz è un “laboratorio” ideale favorire simili malattie e “studiarle”. Mengele preleva campioni di tessuto dalla bocca e dalle guance dei “malati”, soddisfatto esamina i batteri; effettua esami; alla fine “concede” allo sventurato di poter morire: “Di essi non rimane ogni giorno che un mucchietto di ceneri argentee nella sala del crematorio”.
Effettua sconvolgenti esperimenti sulla tubercolosi. Le sue vittime sono ragazzini, passati alla storia come “i venti bambini di Bullenhuser Damm”. Seleziona tra i piccoli ebrei di Auschwitz Birkenau dieci maschi e dieci femmine; li fa portare nei suoi laboratori a Neuengamme, vuole farne cavie per osservare gli effetti della tbc. La storia mette i brividi. È una mattina di novembre 1944. Mengele è alla baracca n.11. Sorride. “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti…”.
Si fanno avanti dei ragazzini. Vengono affidati a un complice di Mengele, Kurt Heissmeyer. Ai ragazzini viene incisa la pelle sul petto, sotto l’ascella destra, tagli a X, lunghi da tre a quattro centimetri; poi vengono loro inoculati i bacilli della tubercolosi e infine le incisioni sono coperte con cerotti. In questo modo gli sventurati contraggono la tbc nello stadio più avanzato, nel giro di qualche giorno presentano sintomi molto evidenti. Uno alla volta i bambini sono coricati sul letto operatorio. Heissmeyer asporta le ghiandole linfatiche sotto le ascelle. Ogni intervento dura circa un quarto d’ora. Nel frattempo al medico capo di Neuenmgamme giunge un ordine perentorio: “Berlino vuole che i bambini siano eliminati, con il gas o il veleno”. Detto fatto: sono subito caricati su un camion diretto alla scuola di Bullenhuser Damm, ad Amburgo; e là, spietatamente uccisi. Il massacro comincia alle undici di sera: i piccoli individui vengono spogliati; si somministra loro un sonnifero, poi sono impiccati. Questa la storia dei “venti bambini di Bullenhuser Damm”.
Vittime dello sterminio, è doveroso ricordarlo, oltre gli ebrei, anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova, oppositori politici.
Per quel che riguarda l’Italia, il regime fascista emana nel 1938 le leggi razziali: gli ebrei sono esclusi dalle scuole e da molte professioni, praticamente dalla vita sociale. La deportazione e lo sterminio iniziano dopo il settembre 1943 quando, in seguito al crollo del regime fascista e all’armistizio, i tedeschi occupano l’Italia settentrionale. I fascisti della Repubblica Sociale Italiana collaborano alla deportazione. Uno dei primi episodi è il rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943: in 1.259 vengono catturati: 689 donne, 363 uomini, 207 tra bambini e bambine. Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto o stranieri, 1.023 rastrellati sono deportati ad Auschwitz. Solo in sedici sopravvivono.
Il campo di Fossoli, in provincia di Modena, diventa il luogo di transito verso i campi dell’Europa orientale, in cui trovano la morte circa ottomila ebrei italiani.
Gli italiani non raggiungono i livelli di spietatezza malvagia e di “efficienza” dei tedeschi; per la buona ragione che tanti sono “i Giusti” che si rifiutano con mille astuzie di applicare le leggi, le aggirano; aiutano e proteggono i ricercati, a rischio della loro stessa vita. Ma accanto ai “Giusti” è doveroso ricordare che numerosi sono stati i casi di spie, delatori, complici. Italiani sono i militi repubblichini di Salò, a guardia dei vagoni piombati diretti nei campi di sterminio. Susan Zuccotti, una storica italo-americana, ha scritto un libro importante: The Italians and the Holocaust: Persecution, Rescue and Survival. Tra le altre racconta la storia di una ragazza, Rita Rosani che anche in Italia pochi conoscono: nata a Trieste nel 1920, insegna nella scuola israelita della sua città fino al 1943. Quando i tedeschi occupano l’Italia, trova un nascondiglio per i genitori, due ebrei cecoslovacchi che vivono in Italia da anni. Entra poi nella Resistenza armata, e partecipa a numerose azioni nella zona di Verona. Il 17 settembre 1944 due partigiani catturati e torturati vengono costretti a condurre un contingente di circa cinquecento soldati tedeschi e fascisti al loro nascondiglio. Il gruppo di Rita, formato da una quindicina di partigiani, tenta una disperata resistenza. Durante la ritirata Rita viene ferita; un fascista la trova e la finisce con un colpo di pistola. Una lapide nella sinagoga di Verona onora Rita Rosani; un’altra è posta nella scuola israelita di Trieste dove Rita ha insegnato. Medaglia d’oro alla memoria, è l’unica partigiana in Italia di cui si sappia con certezza che sia caduta in combattimento, uccisa non da un tedesco, ma da un fascista italiano.
A un certo punto della sua monumentale “The Life of Reason, or the Phase of Human Progress”, il filosofo e scrittore spagnolo George Santayana annota che “quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”. E’ la frase che si legge, incisa in trenta lingue, sul monumento nel campo di concentramento di Dachau. Un nome che si vorrebbe poter dimenticare: uno dei simboli dell’orrore infinito; proprio per questo dovrebbe essere inciso nella nostra memoria, come la frase di Santayana nel monumento in quel “campo”, che di infinito orrore trasuda.
Dachau è il primo lager nazista: voluto e aperto da Heinrich Himmler, il diretto organizzatore, assieme a Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann, della “soluzione finale” della questione ebraica.
Catturato dagli inglesi, Himmler, piuttosto che lasciarsi processare e finire giustiziato come altri criminali nazisti, preferisce uccidersi con il cianuro. Heydrich muore a Praga, nel giugno del 1942, per le ferite riportate dopo un attentato dei partigiani cecoslovacchi. Eichmann, come altri criminali nazisti (per esempio Mengele), grazie a falsi documenti procurati dal vicario di Bressanone Alois Pompanin, riesce a fuggire in Argentina. Nel 1960 il Mossad israeliano riesce a prelevarlo e portarlo in Israele. Al termine di un celebre processo, “condannato a morte per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei”, viene impiccato il 31 maggio 1962 nel carcere di Ramla.
Torniamo a Dachau. Lo “aprono” il 22 marzo del 1933. Sulla Munchner Neuesten Nachrichten, Himmler scrive di suo pugno: “Verrà aperto nelle vicinanze di Dachau il primo campo di concentramento. Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio”.
Dachau serve da modello per tutti gli altri “campi” di sterminio. È la “scuola” per i macellai nazisti: il luogo del terrore e dell’orrore senza fine. A Dachau transitano circa duecentomila persone; secondo i dati raccolti nel Museo del “campo”, almeno 41.500 deportati vengono uccisi. Quei poveretti, sono per lo più ebrei; ma ci sono anche zingari, omosessuali, comunisti, radicali, disabili, devianti in genere. Sono costretti a percorrere una larga strada, ordinata e pulita con maniacale tedesca cura, la Lagerstrasse. Al termine la Jourhaus, ovvero “la porta dell’inferno”: attraversata da un grande arco d’ingresso al campo, chiuso a sua volta da un cancello in ferro battuto, e sopra la famigerata scritta: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Una scritta che troveremo poi in altri lager, simbolo della malvagità nazista.
Tra il 1933 e il 1945 i nazisti costruiscono circa ventimila campi di concentramento: in alcuni, le vittime sono impiegate ai lavori forzati; altri sono di “transito”. Poi ci sono quelli costruiti per l’eliminazione di massa. I nazisti e i loro complici assassinano oltre tre milioni di persone nei soli campi di sterminio. Per poter condurre a compimento la cosiddetta “soluzione finale” realizzano numerosi lager in Polonia, il paese con il più alto numero di cittadini ebrei. Il primo è quello di Chelmo, apre nel dicembre del 1941. Qui gli ebrei e i rom sono sterminati con il gas di scarico all’interno di furgoni appositamente modificati. Nel 1942 entrano in funzione i “campi” di Belzec, Sobidor, Treblinka. I nazisti concepiscono e fabbricano le camere a gas per rendere più veloce ed efficiente lo sterminio. Ad Auschwitz e Birkenau “lavorano” ininterrottamente quattro enormi camere a gas, ogni giorno sono così uccisi seimila ebrei.
Dachau è l’unico “campo” a restare in funzione per tutti i dodici anni del regime nazista. In breve tempo dire Dachau equivale a paura e terrore, abominio e orrore: dai camini dei forni crematori si disperdono nel vento le ceneri; ogni giorno migliaia di sventurati sono scaricati dai vagoni dei treni merci; una volta entrati nel “campo”, non usciranno più: vengono fatti scendere dalla “Judenrampe”, “selezionati”, quasi tutti portati diretta- mente alle “docce” (così i nazisti chiamano le camere a gas). E l’odore della carne bruciata impregna l’aria, lo senti dovunque, anche oggi hai l’impressione di sentirlo. Annota Hannah Arendt, mentre segue il processo Eichmann: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso”. E anche questa “normalità, fa parte dell’orrore.
A questo serve il Giorno della Memoria: è un riconoscere, non dimenticare questa terribile storia; non accettare questa “normalità” che tanti, allora accettarono. Si potrà obiettare che la storia dell’umanità è una catena ininterrotta di sangue, dolore, orrore, terrore; che popoli sterminano altri popoli da quando esiste l’uomo; e per restare ai nostri tempi: i crimini staliniani, quelli della Cina di Mao; e poi Srebrenica, i macellai alla Slobodan Milosevic, Ratko Mladic, Radovan Karadzic; i massacri di Pol Pot in Cambogia; quelli in Ruanda, gli stermini ignorati nella cosiddetta Africa; Aleppo infine… Tutto vero, giusto.
La Shoah però è un evento unico. Non si vuole stabilire una gerarchia del dolore, una classifica dell’orrore più orrore di un altro. Il fatto è che mai, nella storia dell’umanità si è progettata con freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo in quanto tale. Mai si è pianificata questa eliminazione, studiando e cercando le formule dei gas più “efficaci”, progettando i ghetti nelle città occupate, costruendo i lager, predisponendo la complessa rete dei trasporti. Un orrore fatto sistema; questa la differenza.
Primo Levi, uno dei pochi che ha fatto “ritorno” ci ricorda: “Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: ‘ comprendere’ un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui… Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.
Comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Ecco perché la memoria; e perché giorni alla memoria dedicati: “quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo”.