C’è chi sostiene, forse invidiando chi vive ora “gli anni più belli”, che i giovani non sappiano far altro che bere, svagarsi e passare le giornate a conversare di argomenti vacui. Invece, lasciandosi alle spalle qualche scontato luogo comune, alla Luiss Guido Carli, nel cuore del quartiere Parioli di Roma, ci sono ragazzi e ragazze che amano parlare di politica. Non solo: la politica la seguono, la analizzano e la studiano. Abbiamo chiacchierato con alcuni di loro per capire cosa ne pensino degli Stati Uniti, di Trump, di Biden e di queste insolite elezioni americane.
La televisione è accesa da ore raccontando lo scrutinio infinito. Si procede a passo d’uomo e la pazienza inizia a vacillare. Anche se Biden è già stato proclamato da qualche giorno, i media continuano a presentare un panorama incerto. Così, i Luissini cercano un modo per ingannare il tempo e lo trovano iniziando una discussione. Sul piatto ci sono temi scottanti. Uno su tutti, il futuro della democrazia occidentale.

Il primo a prendere la parola è Giacomo, pescarese trasferito a Roma per studiare Scienze Politiche. “La cosa interessante delle elezioni americane è il fatto che siano una sorta di presagio di ciò che accade in Europa. Noto con sempre maggiore insistenza come non esista più il dibattito destra vs sinistra, quanto piuttosto quello tra zone ricche e zone povere, zone pro globalizzazione, popolate da cittadini che abitano in città o sulla costa, e zone sovraniste, normalmente collocate nell’entroterra”. È una teoria interessante, che si sposa bene con il pensiero di una politica progressista che vede il duello tra destra e sinistra come una caratteristica legata al passato.

Non è d’accordo Martina, romana di nascita e attualmente in Erasmus in Francia, che vede nella società americana “una marcata radicalizzazione delle ideologie, molto più in queste elezioni che in quelle precedenti”. La polarizzazione e l’attaccamento a uno dei due fronti, in effetti, è una caratteristica comune a molti scenari politici mondiali. I moderati, nonostante siano ancora fondamentali per poter uscire vincitori dalle urne, tendono a diminuire. Questo, per Martina, è dovuto a una democrazia, quella statunitense, che si trova in un profondo stato di crisi. “Ma tutto ciò non è dovuto a Trump – precisa – non credo ci sia stato o sia in corso un attentato alla democrazia. Trump non è la causa della crisi della democrazia, semmai ne è la conseguenza”.

Sentendo queste parole, Erica annuisce. Anche lei è romana, ma ha un passato cosmopolita. I suoi amici hanno perso i conti di tutti i Paesi nei quali ha vissuto e, tra questi, figurano ovviamente anche gli States. “Credo anche io che Trump non sia la causa della malattia degli USA. Donald continua a giocare molto sulle fake news, sul populismo e sull’emotività, ma non lo vedo come un possibile distruttore della democrazia. Figure come la sua, al massimo, possono incidere nel lungo periodo, mettendo in discussione alcuni principi democratici”.

“Sì – interviene Nicolò, genovese doc che da tre anni si è trasferito nella capitale per studiare alla LUISS – le sue azioni degli ultimi giorni non devono sorprendere così tanto e non sono nemmeno inedite. Ricordo un precedente, nel 2000, quando dopo le elezioni, avendo Bush vinto in Florida per meno dello 0,5% dei voti, Gore fece ricorso e chiese il riconteggio”.
È infine Sofia, nata a cresciuta a Roma, a guardare al futuro. Lo fa con ottimismo, perché crede che, con l’insediamento di Biden, “ci siano buone premesse”. “Se il voto popolare ha premiato i democratici è perchè vogliono che l’America migliori. Tutti hanno avvertito le tensioni che hanno attraversato gli States ed evidentemente Biden, in virtù anche della sua grande esperienza da uomo delle istituzioni, è visto come l’uomo capace di imprimere un deciso cambio di rotta”.
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