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Cari giovani ma quale movida col covid, calate le arie e alzate quella mascherina

I ragazzi di oggi non hanno idea della vera "movida" in Spagna alla fine del franchismo, quando si era felici non per l'alcol ma per la libertà e l'eros

Elisabetta de DominisbyElisabetta de Dominis
Cari giovani ma quale movida col covid, calate le arie e alzate quella mascherina
Time: 4 mins read

I giovani non capiscono. Non capiscono perché devono indossare la mascherina, perché non possono stare a ciondolare vicini vicini fuori da un bar con un bicchiere in mano ubriachi fradici, perché devono tornare a casa entro le undici di sera, perché – soprattutto – devono prendere queste precauzioni per non infettare genitori e nonni. Non capiscono perché devono rinunciare a fare la movida per salvaguardare i propri cari. Ma vi rendete conto del sacrificio che chiediamo a questi poveri giovani?

Non possono più fare quella schifezza che chiamano movida, dove tutti credono di comunicare ma riescono solo a motteggiare mentre si gonfiano la pancia di alcol e si alitano in faccia. Il massimo che riescono a fare e sfoggiare degli orripilanti tatuaggi con cui hanno devastato il loro corpo.

Movida significa movimento ed era quella particolare euforia che aleggiava in Spagna negli anni ‘80 alla fine del regime franchista, dove finalmente tutti assaporavano di nuovo la libertà, dopo una dittatura militare che era iniziata nel ‘39.

Nel 1974 Franco si era ammalato e il regime si era allentato, ed io, passata la matura, avevo scelto di andare con tre amiche a festeggiare la fine dei cinque anni da incubo del liceo classico a Palma di Majorca, isola delle Baleari. Eravamo sempre state incollate ai banchi a studiare tutto il giorno e spesso anche la notte. Niente movida né sport. Il liceo era stato durissimo, non solo per lo studio pesante a cui eravamo state sottoposte, ma soprattutto per i metodi psicologici disumani con cui ci era stato impartito. Penso che gran parte dei miei professori ora sarebbe stata denunciata dai genitori dei loro alunni e sollevata dall’insegnamento.

Tuttavia qualcosa abbiamo imparato e ci è rimasto dentro: il senso della gerarchia, il rispetto, l’educazione, ma anche ad avere sempre una propria opinione e combattere contro tutti e tutto per affermarla. Significa non accettare di rinunciare alla propria dignità di essere umano per ottenere qualche vantaggio o per seguire il branco. Ci hanno insegnato a ragionare e hanno sviluppato in noi il senso critico. Ci hanno insegnato ad essere rispettosi ma coraggiosi, considerando che ogni azione comporta una responsabilità. Ci hanno indicato la strada della libertà.

Midtown Manhattan, sulla Seconda Avenue, il 13 settembre, 2020 (Foto di Terry W. Sanders)

Ora vorrei capire cosa insegnano a scuola e come. Mi pare che, tra i giovani, il rispetto verso l’altro sia pari a zero e che il coraggio sia quello di una pecora, provane sia che la responsabilità terrorizza anche i più bravi e finiscono tutti sul lettino del terapista invece che su quello del partner. Certo, come sempre ci sono le eccezioni, che confermano appunto la regola. Sregolata.

Dunque, quell’agosto del ‘74 partimmo per la movida. E movida fu. Scoprimmo che le ore piccole non si facevano solo sui libri ma anche sulle piste delle discoteche. Che il massimo della vita era andare dal fornaio alle cinque del mattino a mangiare gli ensaimada, dolcetti a spirale, tanto con tutta quella coca cola che bevevamo chi aveva più sonno. Che essere grandi significava scorrazzare in una Seicento, con il giradischi sulle ginocchia, e andare al mare. Che eravamo straniere e quindi ci consideravano bellissime. Che essere trasgressive significava rovinare la cena al lume di candela ai villeggianti tedeschi, irrompendo nella sala ristorante dell’albergo in copricostume con le chiome bagnate, e poi fargli andare di traverso la colazione vestite da sera.

Qualcuno ci filmò. Non si dormiva mai e se si dormiva era sotto l’ombrellone di paglia in spiaggia. Il massimo della bravata era fare a gara chi mangiava più fette di angurie. A me un quotidiano locale dedicò un articolo sul trikini che indossavo: non avevano mai visto un bikini succinto, fatto di tre pezzetti di jeans. Uno spasimante spagnolo fece ritirare tutte le copie in vendita ed ebbi la prova che non era l’uomo della mia vita perché me l’avrebbe soffocata. Poi incontrai l’uomo della mia vita, un torinese bellissimo e dolcissimo, ma avevo appena scoperto la libertà e capii che non avrei mai amato nessuno più di lei. Quando ci lasciammo mi diedi all’alcol e mi feci ben due Irish coffee, più per la bontà della panna che per il whisky. Non ho più bevuto e non mi sono mai ubriacata in vita mia. Se devo fare una sciocchezza, voglio farla nel pieno delle mie capacità intellettive. Preferisco essere trascinata da eros che dall’alcol.

Questi giovani di oggi vivono come i loro genitori: vanno a cena, bevono e non fanno l’amore. Ma che divertimento è? Il fatto è che hanno già tutto, non si devono meritare e conquistare niente. Pensano di essere stati privati della libertà perché non possono fare movida tutto l’anno, ma non sono neanche capaci di ballare di gioia senza alcol nel corpo. Sono pavidi e danno la colpa ai vecchi delle loro privazioni. I genitori gli devono lasciare una cospicua eredità per potere vivere in sicurezza. L’unica cosa sicura è la morte, cari ragazzi. E quella non guarda in faccia nessuno: né giovani né vecchi. Quindi calate le arie e alzate la mascherina.

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Elisabetta de Dominis

Elisabetta de Dominis

Detesto confondere la mia vita con un curriculum. Ho ballato e sognavo di nuotare, ho nuotato e sognavo di cavalcare, ho cavalcato, studiato, mi sono laureata mentre facevo la stilista e sognavo di fare la giornalista, ho collaborato con una ventina di testate nazionali, diretto una rivista, ho fatto l’esperta di quasi tutto, dal food al fashion al sex, ho viaggiato e sempre volevo essere da un’altra parte, libera di inseguire l’ultimo sogno.

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