La mia opinione sull’accusa che Mario Vaudano fa a Giulio Andreotti, è che il racconto dell’ex giudice sia viziato da ciò che c’è sostanzialmente di sbagliato nel sistema della magistratura italiana. La memoria di Vaudano, per quanto accurata possa essere storicamente, non è solo egoistica. È anche un potente esempio di colpevolezza per associazione e per insinuazione, una colpevolezza indiretta che lo scrittore, in questo caso un ex magistrato e giudice, ha deciso in anticipo debba esserci.
I magistrati battaglieri, coccolati e temuti sono quelli esperti, in un ordinamento giuridico dove sono gli imputati, e non i pubblici ministeri, a dover dimostrare la loro innocenza! I magistrati sono immensamente esperti. In quello che scrive Vaudano non c’è una sola riga, nemmeno una piccola evidenza provata, che reggerebbe in un tribunale onesto e non politicizzato.
Qui il mio ritratto di Andreotti, scritto alcuni anni fa, è autobiografico.
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Giulio Andreotti, sette volte primo ministro italiano, è stato un amico lontano. L’ho anche descritto come uno dei miei insegnanti. L’ho incontrato alla fine degli anni ’50 ed è stato presente da protagonista nella politica nazionale italiana dal secondo dopoguerra fino alla sua morte, quasi settant’anni dopo.
Se Andreotti avesse o meno degli amici intimi, fu un segreto ben custodito. In uno dei tanti processi che dovette sopportare, fu ridicolmente accusato di aver baciato su entrambe le guance l’allora famigerato capo della mafia siciliana. Sarebbe una notizia se Andreotti, chiamato “La Tartaruga” dagli italiani, fosse noto per salutare in quel modo i membri di quella famiglia.
Andreotti, in Italia, era sostenuto da milioni di cittadini che hanno creduto in questo uomo straordinario, ma, probabilmente, da altrettanti era disprezzato. Ha guidato a lungo la Democrazia Cristiana e, in molte delle elezioni alle quali ha partecipato, ha ricevuto centinaia di migliaia di “preferenze”. Solo una manciata di leader politici, nella storia italiana, hanno ottenuto più voti di quelli di Andreotti. Questo fatto, da solo, era sufficiente a far indispettire i suoi detrattori.
Andreotti non piaceva a Washington, probabilmente perché non era disposto a farsi guidare dagli Stati Uniti. Fece spesso infuriare gli americani, perché voleva che l’Italia seguisse la propria idea di politica estera, senza farsi influenzare dall’esterno. Mantenne apertamente un atteggiamento amichevole nei confronti del mondo arabo. Questa posizione, di certo, non gli fece ottenere amici a “Foggy Bottom” (Il Dipartimento di Stato USA, ndr), molto più favorevolmente orientata verso Israele di quanto lo fosse Andreotti, o di quanto fosse la Sinistra Italiana, di cui Andreotti non fece mai parte. Andreotti si pentì dell’ostilità di Washington nei suoi confronti, ma, a differenza di molti dei suoi contemporanei politici, non era incline a cedere sotto le pressioni degli Stati Uniti.

Il comportamento di Andreotti potrebbe avere indotto alcuni a credere che “La Tartaruga” fosse un uomo troppo moderato e non fosse intelligente. A mio giudizio, e certamente nel suo senso per la politica, Andreotti in Italia non ha mai avuto una grande concorrenza politica. Anche i suoi nemici giurati, e forse molti che erano noti per detestarlo, erano attenti a dargli spazio. Amici e colleghi italiani si stupivano spesso del fatto che Andreotti mi piacesse, che lo rispettassi e che mantenessi i contatti con lui.
Ho incontrato Andreotti l’ultima volta poco prima che raggiungesse i novant’anni. Gli chiesi se, nell’arco della sua carriera politica, ci fosse qualcosa di cui si lamentasse, o di cui si fosse pentito. Mi riservò quello che pensavo fosse uno sguardo condiscendente ed esitò un attimo prima di parlare. Disse poi che il suo unico vero rimpianto era il pensiero che non sarebbe stato vivo quando il tribunale, in Sicilia, avrebbe respinto le accuse contro di lui. Ancora una volta, non c’erano prove a sostegno delle accuse che i magistrati politicizzati gli avevano rivolto.
Andreotti ha discusso con me le motivazioni politiche che hanno spinto i magistrati a muoversi contro di lui. I suoi commenti sulla motivazione politica o ideologica dei pubblici ministeri e dei giudici italiani sono stati molti, e sempre negativi. Andreotti ha visto correttamente il lato politico della magistratura, indipendentemente dal fatto che venisse da destra o da sinistra, da entrambi gli estremi della politica italiana.
Ha escoriato la magistratura “intoccabile” in modo corretto ed è stato attento a sottolineare come, l’Italia, fosse un paese in cui le stesse persone, spesso compagni di classe e amici, fossero in modo intercambiabile procuratori e giudici. In effetti, ci si aspetta che periodicamente svolgano entrambi questi ruoli. Purtroppo, i tentativi italiani di “riformare” la magistratura, indirizzati in questo senso, hanno sempre fallito.
Se il lettore vuole un esame della magistratura italiana estremamente critico, delle sue dinamiche e delle sue orrende motivazioni politiche, allora deve acquistare una copia del libro di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, La ghigliottina italiana (Rowman & Littlefield, 1998). Io stesso ho pubblicato un articolo (The Yale Review Vol.99, gennaio, 2011, pp. 89-105) in cui sostengo che i magistrati siano degli ottimi “vigilanti”, e che così sia anche il peggiore tra loro. Qualsiasi politologo, dentro o fuori l’Italia, giungerebbe a questa conclusione.
Andreotti è stato particolarmente deciso nel rimproverare il comportamento dell’ANM, la lobby nazionale dei magistrati. Mi ha avvertito, raccontando che questa lobby fosse così potente che né i deputati, né i primi ministri e nemmeno i presidenti della Repubblica osassero criticare apertamente la magistratura, il Consiglio nazionale della magistratura, o l’ANM, il potente gruppo di interessi che rappresenta e combatte per i magistrati italiani, che in effetti giudicano ufficialmente se stessi e, di fatto, si trovano al di sopra della legge.
Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, ha visto questo aspetto della magistratura dopo che, nei primi anni ’90, è stato presidente di Montecitorio, la Camera dei Deputati. Ma quando il suo libro autobiografico di quell’esperienza è stato pubblicato, è stato molto attento nel suggerire ai magistrati italiani come migliorare il loro comportamento pubblico.

Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992, era molto più diretto, almeno quando io e lui ci trovavamo a discutere delle mancanze dei magistrati e dei giudici italiani. Cossiga, in verità, mi ha detto che, per quanto riguarda la moralità o l’etica professionale, i magistrati italiani sono simili ai procuratori distrettuali americani, in particolare a quelli che vengono eletti. Penso che Cossiga, una volta ritiratosi in pensione, abbia odiato la magistratura. Le sue parole per me erano: ” Questi non sono altro che truppe d’assalto”. Ha sempre enfatizzato la sua idea: che i pubblici ministeri e giudici, in Italia, non fossero nulla di diverso da “armi d’assalto”.
Quando fu giudicato innocente dai magistrati siciliani che lo avevano erroneamente accusato, Andreotti si ricordò della nostra conversazione. Così, dal Senato italiano, mi fece recapitare questo messaggio: “Caro Professore, come avrà visto, anche i vecchi politici, a volte, sono capaci di sbagliare! Ossequi”.
Sotto potete leggere un intervento di replica a questo articolo del magistrato Mario Vaudano
Traduzione dall’inglese a cura di Nicola Corradi