Barbara Bartolotti è viva per miracolo. Nel 2003, viene presa a martellate alla testa e pugnalata all’addome da un collega. Non soddisfatto, questi la cosparge di benzina e le dà fuoco. Perderà il figlio che porta in grembo. Lui, Giuseppe Perrone, inizialmente condannato a 21 anni, sconta la pena ai domiciliari. Oggi è libero e lavora alla Banca Unicredit, mentre Barbara è disoccupata da 17 anni, dal giorno dell’aggressione.
Sempre nel 2003, a Milano, Diego Armando Mancuso accoltella la fidanzata Monica Ravizza e le dà fuoco. Condannato in primo grado a 18 anni, ridotti a 16 anni e 8 mesi, dopo solo 5 anni è fuori grazie all’indulto. È impiegato presso un’azienda comunale, e la sua vita è tornata normale.
Ancora nello stesso anno, Renato Di Felice uccide con due coltellate la moglie Maria Concetta Pitasi, davanti alla figlia sedicenne. I 14 anni di condanna diventano solo 6. Alla fine sconterà solo pochi giorni. La morte della moglie “è stata una liberazione”, dichiarerà alla stampa..
Sonia Di Giuseppe ha subito per 26 anni violenze fisiche e psicologiche da parte del marito. Botte, molestie e segregazione. Il marito Luigi viene condannato in primo grado a 7 anni di reclusione per maltrattamenti in famiglia. Ma lui ancora è in circolazione e abita a 200 metri dalla casa di Sonia.
Alex Maggiolini , nel 1991, violenta e strangola la fidanzata Rossana Jane Wade. Viene condannato a 23 anni in primo grado ma torna libero dopo 12 anni. Oggi è sposato e abita (e aggiungerei senza ritegno alcuno) vicino alla casa della mamma di Jane.
Luigi Campise uccide con una raffica di proiettili la fidanzata Barbara. Viene condannato a 30 anni di reclusione, ridotti a 16 in appello. Dopo due anni è libero poiché “è stata erroneamente applicata la buona condotta”, come scoprirà il padre della vittima.
Massimiliano Gilardoni aveva moglie e un figlio nel 2002, quando sgozza Anna Barindelli. Condannato in primo grado a 16 anni, ridotti in appello a 14 anni e 6 mesi, gli vengono concessi i domiciliari in una casa di cura, dopo appena 2 mesi.
30 anni a Michele Castaldo per aver strangolato e ucciso la ex, Olga Matei, nel 2016 a Riccione. Ha ottenuto 16 anni in appello con attenuanti generiche perché in presenza di una ‘tempesta emotiva’. Viene respinta in Cassazione, ma per quanto mi riguarda e per un minimo di rispetto per i morti non sarebbe dovuto accadere.
A Vimercate, un uomo condannato in primo grado a 5 anni di reclusione per aver violentato e preso a calci e pugni la compagna, ottiene una riduzione della pena poiché la vittima “aveva una condotta troppo disinvolta”.

(Foto di Luan Oosthuizen da Pexels)
Una violenza ogni due giorni. 150 casi ogni anno.
Tre denunce su quattro vengono archiviate, la maggior parte restano impunite. Una beffa per le vittime, un’umiliazione per i familiari sopravvissuti a loro.
Le condanne per omicidio volontario non superano i dieci anni di pena, quelle per violenza sessuale un anno e poco più. Per non parlare delle condanne praticamente inesistenti per maltrattamenti in famiglia o nei confronti di minori. Rito abbreviato, possibilità di dimezzare le pene in appello, permessi premio, libertà vigilata e sconti di pena che rappresentano spesso un pericolo per la vittima (sempre che sia ancora viva).
È questo il valore che lo Stato riconosce alla vita? Che diritto ha un assassino all’appello? Che diritti può vantare dopo aver messo fine all’esistenza di un altro essere umano? Chi gli permette di essere assunto da un ente pubblico o da una Banca, per cui – se non erro – si dovrebbe avere la fedina penale immacolata? Chi lo autorizza ad abitare a fianco della casa della vittima, a vivere la sua normalità davanti agli occhi di una madre che ha perduto per sempre una figlia, a frequentare gli stessi posti frequentati dalla donna che lo ha denunciato? Come si azzarda a fare il padre o la madre?
E, soprattutto, perché non paga come dovrebbe il suo debito?
Secondo i dati Istat, gli uomini violenti sono recidivi. “Su 585 condannati nel 2017 per omicidio volontario consumato, 432 avevano già precedenti penali e, tra coloro che tornano a delinquere, oltre il 50 per cento commette lo stesso reato”. Anche la violenza sessuale presenta una ripetitività: di 157 recidivi, 64 commettono nuovamente lo stesso reato.
Un uomo di Vailate, Gaetano De Carlo, era stato denunciato oltre 7 volte da almeno 4 donne, prima di uccidere Maria Montanaro e Sonia Balconi, ma nessuno si era impegnato a dare corso alle denunce, nessuno le ha inserite sui terminali.
Come se una denuncia per violenza non dovesse avere nessun valore. Come eravamo bravi invece a denunciare chi usciva di casa durante l’emergenza nazionale!
Nel 2002, Paolo Pergher, a Trento, ottiene i domiciliari e tre mesi dopo uccide la moglie Rita Trettel. Oggi è libero e gestisce l’hotel Edelweiss come se nulla fosse accaduto.
E ancora Mohamed Aziz el Mountassir, Emiliano Santangelo, Luigi Faccetti. Tutti colpevoli di omicidio. Asilan Agaj uccide la prima moglie e anche la seconda. Erano stati denunciati, ma nessuno ha ascoltato le richieste di aiuto delle vittime. Deborah Ballesio aveva denunciato Domenico Massari, il suo ex marito, la bellezza di 19 volte prima che lui la freddasse con 6 colpi di pistola. L’elenco può continuare a lungo ed è nauseante.
Che lo Stato italiano, in tema di Giustizia – in particolare per quanto riguarda la violenza sulle donne – avesse qualche falla, ce n’eravamo accorti da tempo, nonostante la Convenzione di Istanbul ratificata dal nostro Paese il 27 giugno 2013. Un esercito di donne lasciate sole, con le loro ferite, le loro paure, i loro fantasmi, i loro aguzzini sempre in agguato. Donne che, se miracolosamente restano in vita, trovano ostacoli ai percorsi di uscita, stereotipi e pregiudizi da affrontare, e non possono contare su misure di protezione efficaci, perché non esistono, se non da qualche onlus.

Ha ragione Sonia di Giuseppe quando dice che bisogna pensarci quando le donne sono ancora vive, non quando sono morte. Il problema è che non ci si pensa neppure dopo! A meno che non si venga coinvolti in una tragedia del genere.
Durante il dl ‘Cura Italia’ che ha obbligato i cittadini a rimanere in casa per contenere il contagio da coronavirus, le donne – ma le vittime sono anche uomini – si sono ritrovate a convivere in spazi ristretti con i loro aguzzini e a vedersi negata una boccata d’aria durante le ore di lavoro o nel momento in cui potevano accompagnare i figli a scuola. Da un confronto con i dati del periodo in osservazione con quelli dello stesso periodo dell’anno precedente, si evince un calo sostanziale del numero di denunce per violenza domestica. A conferma che, in una situazione di emergenza nazionale, si preferisce sopportare anziché denunciare per non inasprire lo stato delle cose.
Attiva sul territorio la nuova campagna di D.i.Re “Violenza sulle donne. In che Stato siamo?” per sollecitare gli organi preposti ad applicare pienamente la Convezione sulla violenza contro le donne.
La stessa Barbara Bartolotti ha fondato l’Associazione ‘Libera di Vivere’ per dare un sostegno concreto alle vittime di violenza, con la speranza che si possa educare gli uomini e le donne del domani al rispetto di ogni forma di vita, a partire dal basso, dalla famiglia e dalla scuola.
Ma la domanda che mi pongo è questa: davvero lo Stato ha bisogno di una campagna di sensibilizzazione per arginare questa falla? Davvero c’è necessità di qualcuno che ricordi a giudici e governanti quanto valga una vita umana e quanto una pena certa e senza sconti potrebbe rappresentare un sicuro deterrente per gli eventuali assassini? Davvero il femminicidio e la violenza (contro uomini e donne indistintamente) deve essere combattuta dai sopravvissuti dinnanzi all’impunità dei loro aguzzini?
Eppure abbiamo ampiamente dimostrato quanto siamo bravi a far scattare la caccia all’untore da virus… come mai non lo siamo altrettanto nel segnalare casi di violenza sospetti o di cui si è a conoscenza, incoraggiando la vittima a denunciare, aiutandola e supportandola? Forse perché ad essere infami risulta più facile e meno dispendioso?
Vale anche per lo Stato?