Questo non è uno scoop. Si tratta invece di mettere nero su bianco quelle evidenze che si vogliono a tutti i costi celare, tombare o confondere tra i fiumi di parole e di fatti che compongono il “caso Moro”. Spiego l’antefatto.
Il manifesto
Lo scorso 17 agosto l’agenzia di stampa AdnKronos ha diffuso una sorta di manifesto nel quale si è affermato che non esistono e non sono mai esistiti legami fra servizi segreti e Brigate Rosse, che non c’è collegamento fra il covo di Via Gradoli e quello utilizzato dai Nar nell’ambito della strage di Bologna due anni più tardi, e che soprattutto Aldo Moro non vi è mai stato tenuto prigioniero. Il documento firmato da più studiosi, qualche archivista, un ex BR e alcuni giornalisti, ha la particolare caratteristica di confondere i piani consegnando dei finti punti chiave. Il documento addirittura – scrive l’Adnkronos – “punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il Sisde e le Br” .
Il “manifesto” è stato condiviso molto sui social e ripreso da diverse testate e siti, così come inviato, senza alcun commento critico che lo accompagnasse. Non c’è spazio qui per affrontare la vicenda che collega il covo di Via Gradoli ai Nar e alle Br in tempi differenti. Si tratta in ogni caso di un punto inserito nel “manifesto” volto a normalizzare alcuni fatti ma che non riesce a cancellarne le evidenze. Lo stabile di Via Gradoli è stato al centro di un lavoro pedissequo di ricerca dell’ex senatore Sergio Flamigni convogliato nel libro Il covo di Stato (Kaos edizioni 1999) dove società di copertura dei servizi vengono citate.
Il covo scoperto nelle ultime indagini che riguardano invece la strage alla stazione di Bologna avvenuta il 2 agosto 1980 è stato individuato in un altro numero civico, il 65, ma la questione espressa nel manifesto in modo tautologico non risponde alla domanda principale: Via Gradoli era una strada frequentata da criminali e terroristi quindi controllata, possibile mai che le Br non sapessero dove sistemare la base operativa del sequestro? Spostare l’attenzione su due diversi numeri civici è solo un’abile mossa per confondere le acque e cercare di gettare nebbia sul fatto che il terrorismo veniva utilizzato a seconda delle esigenze e dei tempi.
I rapporti Sisde-BR
E’ necessario prima di tutto citare un fatto: l’ex presidente della Commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, durante un’audizione della ex BR Adriana Faranda avvenuta il 20 settembre 2017 aveva rivelato la esistenza di un documento del 1990 dove si attestava la collaborazione avvenuta fra Valerio Morucci e il Sisde: “Quando vi fu il secondo ritrovamento di via Monte Nevoso [ottobre 1990 nda], il centro SISDE di Roma trasmise, il 3 novembre del 1990, alla direzione del SISDE stesso una serie di valutazioni di Valerio Morucci, che all’epoca collaborava con il Servizio. Valerio Morucci collaborava con il SISDE e il 3 novembre del 1990 trasmisero una serie di valutazioni di Morucci sulla vicenda di via Monte Nevoso. Morucci collaborava col SISDE di allora, non con le associazioni di oggi, e disse una serie di cose, e precisamente gliele dico».
La Faranda colta un po’ di sorpresa mostrò di non saperne nulla ma ammise nella stessa audizione che tramite l’ex giudice Fernando Imposimato era venuta in contatto con due funzionari del Sisde con i quali aveva rifiutato di proseguire qualsiasi rapporto. Già dunque l’assunto “nessun rapporto fra Br e Sisde” per entrambi i casi citati e, di più per il primo, si mostra falso.
Altro collegamento fra ex Br e Sisde poi è quello racchiuso nella storia della latitanza in Nicaragua di Alessio Casimirri di cui si è molto scritto e anche sviscerato dagli stessi protagonisti. Non ultimo uno dei due agenti Sisde volati in Nicaragua, a Managua dove come è noto gestisce un ristorante tutto suo, per trattare con lo stesso ex BR (l’unico insieme ad Alessio Lojacono latitante in Svizzera a non aver mai scontato la condanna a loro comminata per il sequestro Moro e l’uccisione dei 5 agenti).

Per entrambi, i tentativi di estradizione da parte delle autorità sono andati a sbattere negli anni contro il muro di omissioni, insuccessi e divieti dei paesi che li “ospitano”. Come riferito al pm Franco Ionta da entrambi gli agenti del Sisde che hanno incontrato Casimirri in Nicaragua due volte (nell’estate del 1993 e nel dicembre 1993), il latitante oltre a indicare altri partecipanti all’azione di Via Fani e ad ammettere la sua stessa partecipazione (poi negata negli anni), nel dicembre del 1993 doveva riferire molto altro ma la collaborazione è stata bloccata da una fuoriuscita di notizie apparse su L’Unità il 16 ottobre 1993 che – sempre secondo il racconto dei due agenti – avrebbe fatto desistere il Casimirri dal proseguire nella collaborazione. Il 15 gennaio dello scorso anno uno dei due agenti Carlo Parolisi lo aveva confermato proprio all’agenzia Adnkronos:
“La missione in Nicaragua per convincere l’ex Br Alessio Casimirri a rientrare in Italia e a svelare i retroscena della sua fuga all’estero “non fu un depistaggio” ma “un’operazione di intelligence” che fallì per la volontà di qualcuno che evidentemente aveva paura di quanto il terrorista avrebbe potuto rivelare. Lo afferma all’Adnkronos Carlo Parolisi, l’agente del Sisde che nel 1993, insieme a Mario Fabbri e a un altro agente sotto copertura, visse in prima persona quella vicenda. Parolisi volò a Managua per una serie di incontri con l’ex Br che fu nel commando di via Fani e ne raccolse le confidenze, fino a quando, ribadisce ancora una volta, “quel maledetto scoop dell’Unità” che rivelò la collaborazione di Casimirri con i servizi non infranse la speranza di riportarlo in Italia”
La particolarità del pezzo uscito sul quotidiano L’Unità, infatti, era quella che indicava in tre e non in due il numero degli agenti impegnati nella missione: dettaglio di cui nessuno era a conoscenza se non il servizio stesso e, evidentemente, qualcun altro.
L’altro agente Sisde, Mario Fabbri, sentito dall’ultima Commissione Moro nel 2017, indicando l’attività di infiltrazione svolta nelle BR e andata a compimento nel 1984, ha anche affermato che i rapporti di collaborazione con Morucci e Faranda risalgono al periodo in cui i due ex BR sono stati condotti nel carcere di Paliano (i due sono stati arrestati e lì condotti nel maggio del 1979). Ecco l’estratto dell’audizione del 18 dicembre 2017 relativa a quei fatti:
«Noi all’epoca [1984 NdA] stavamo costruendo una rete che ci consentisse di identificare ed operare
in un contesto di terrorismo. In quella circostanza, il nostro operatore riferì alla fonte di essere stato
richiesto di compilare un documento di organizzazione; chiedemmo a Morucci e Faranda un
consiglio su come poter compilare quell’atto e ci dissero che era preferibile esordire con un
documento di livello non troppo elevato e tracciarono alcune linee per la stesura. Questo è un
esempio della collaborazione che avevamo.
Domanda: Quando iniziaste i contatti con Morucci e Faranda?
Risposta: I contatti li avemmo con entrambi, non rammento la data, mi pare quando divennero
“definitivi”, comunque erano già reclusi presso il carcere di Paliano».
Quindi stando a questa dichiarazione i contatti fra Sisde, già molto operativo invece sin dalla sua riorganizzazione, e i due BR è molto più antico di quanto comunque è emerso.

Il ruolo di Casimirri (e quello di Giovanni Senzani) è da considerarsi tra i più oscuri dei componenti BR nella vicenda Moro e non ancora del tutto sviscerato. Sempre per Casimirri, fuggito in Nicaragua nel 1983, inoltre, la stessa Commissione Moro 2 ha rinvenuto presso l’archivio dell’Arma dei Carabinieri un documento precedente alla fuga di «Camillo», come veniva chiamato nel gruppo terroristico, che ne attesta l’arresto. Si tratta di un cartellino fotodattiloscopico datato 4 maggio 1982, atto a identificare le persone, che riporta, oltre al tipo di accertamento svolto su di lui, anche appunto il motivo del segnalamento, e cioè l’arresto. A carico di Casimirri allora pendevano già due mandati di cattura per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, accusa debitamente annotata sul cartellino. A seguito di questo ritrovamento la Commissione aveva chiesto al Governo (presidente del Consiglio Paolo Gentiloni) di fare nuova richiesta di estradizione. Le dichiarazioni dell’ex pm Marini. Nel 1995, durante un’audizione in Commissione Stragi, l’ex pm Antonio Marini che si è occupato di alcuni filoni d’indagine sul Caso Moro (il coinvolgimento del boss di ‘ndrangheta Antonio Nirta nella strage di Via Fani e la presenza di una moto Honda con personaggi non identificati sempre in Via Fani) indicò alla Commissione un ragionamento frutto di quanto da lui al tempo indagato seppure archiviato. La dichiarazione fu resa nota all’opinione pubblica soltanto tre anni più tardi ma è importante perché proprio dal magistrato riferita in un contesto d’indagine come quello di una commissione d’inchiesta parlamentare:
«Vi è poi un aspetto molto delicato che riguarda il procedimento contro Antonio Nirta e che si riferisce ad Alessio Casimirri. Dobbiamo decidere tra due versioni acquisite al processo. Secondo la prima Antonio Nirta era il confidente di un certo capitano dei carabinieri che operava nel settore dei sequestri di persona [Francesco Delfino NdA]. Nirta avrebbe fatto fare una serie di operazioni a questo ex capitano dei carabinieri. Poi si dice che Antonio Nirta sarebbe stato messo a via Fani per partecipare al sequestro Moro […]. Secondo un’altra ipotesi, Antonio Nirta avrebbe fatto compiere operazioni all’ex capitano dei carabinieri che, a sua volta, si sarebbe accorto che l’uomo fermato non era un comune sequestratore di persone ma addirittura un terrorista che si identificava in Alessio Casimirri e, resosi conto che si trattava di un brigatista, riuscì a sapere che stava organizzando non un comune sequestro ma il sequestro del presidente della dc Aldo Moro e allora lo passò al Sismi. Il Sismi gli avrebbe fatto fare l’operazione, lo avrebbe avuto come infiltrato, avrebbe saputo tutto quel che voleva sapere su via Fani e sulla prigione di Moro e poi lo avrebbe fatto fuggire all’estero».

Va detto che il rapporto Delfino-Nirta è stato confermato da molti collaboratori sempre ritenuti attendibili nelle varie sentenze di ‘ndrangheta (fino all’ultima di primo grado nota come Ndrangheta stragista). Il boss Nirta, detto due nasi classe ‘46, è stato anche oggetto di indagine nell’ultima Commissione Moro e a questo proposito nel luglio 2016 Fioroni ha affermato:
“Grazie alla collaborazione del Ris dell’Arma dei Carabinieri, possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era anche l’esponente della ‘ndrangheta Antonio Nirta, nato a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, l’8 luglio del ’46”.
La perizia che conferma quella presenza lo indica nella sua relazione in un modo un po’ contorto che va incontro a diverse interpretazioni ma la dichiarazione di Fioroni e tutte le indagini svolte spazzano via i dubbi che a forza si vogliono costantemente inserire al riguardo bollando altri di fare disinformazione. Altra questione è invece la quasi scomparsa del suo ruolo e della ‘ndrangheta tutto nella ultima relazione redatta dalla Commissione, i cui componenti hanno affermato che i documenti riservati che riguardano questo aspetto sono stati consegnati alla procura di Roma e dunque rimasti segretati per questo motivo. A oggi non è ancora noto però se la procura di Roma guidata da Prestipino stia effettivamente indagando al riguardo come su altri filoni del caso (filone artificieri, filone Steve Pieczenick e filone criminalità organizzata appunto).
La video-intervista di Tina Anselmi

Vengo ora alla video intervista rilasciata dalla ex Presidente della Commissione P2, e tenace morotea, Tina Anselmi. Quando la stampa informò della sua morte avvenuta il 1° novembre 2016 l’agenzia Ansa pubblicò alcuni contenuti di una video-intervista depositata nel giugno del 2016 e mai diffusa in TV. Ecco il lancio Ansa e l’articolo del Fatto Quotidiano che l’ha ripresa:
(ANSA) – ROMA, 1 NOV – L’ultimo contributo di Tina Anselmi
alla politica è stata una intervista video di qualche anno fa
fatta avere solo poche settimane fa alla Commissione Moro.
In quella video intervista, che è stata ‘segretata’ in diversi
passaggi, l’Anselmi rivela due cose del tutto nuove rispetto al
caso Moro: fu avvisata dei pericoli che correva Aldo Moro e
cioè che ci fossero in preparazione atti di violenza nei
confronti del Presidente della Dc da un esponente della sinistra
e lo comunicò, non riuscendo ad avvertire direttamente Moro,
alla segreteria del Presidente della Dc il 15 marzo sera e
rivela che Moro- “e tutti lo sapevano”- i primi giorni di aprile
del 1978, era ‘detenuto’ in via Gradoli dove il 18 di aprile
venne scoperto, grazie ad una perdita di acqua dal bagno del
covo Br, la principale base delle Brigate Rosse a Roma durante i
55 giorni del rapimento.
Una testimonianza video che ora è aggetto di approfondimenti
da parte della Commissione di inchiesta.
Tina Anselmi – tra i pochi esponenti democristiani a essere
ammessi a casa Moro nei giorni del sequestro, anzi l’ufficiale di
collegamento, la staffetta, per così dire, tra piazza del Gesù
(sede della DC) e via del Forte Trionfale 79 (casa Moro) – parla
così di ciò che accadde all’inizio dell’aprile del 1978:
“Tutti sapevano che Moro era in via Gradoli. Ognuno ha portato
il suo pezzetto di verità sapendo che difficilmente si arrivera’
alla verità. In quei giorni, si sapeva tanto e tutto e tutto era
anomalo. Tanti volevano sapere, parecchi hanno saputo. Ci furono
discussioni anche tra i BR. Non si fidavano gli uni degli altri.
Gli uni cercavano l’avallo degli altri.
Ognuno ha portato il suo pezzetto di verità sapendo che molto
difficilmente arriveremo alla verità. Ma bisogna giungerci
perché questo per il nostro Paese è un problema vero, pesante,
rilevante. Un buco nero. Da Gradoli in poi, ci sono le tante
verità dei tanti personaggi. La verità di Moro è nelle lettere.
In quello che ha scritto, ci sono pezzi di verità.
La famiglia sapeva. Sappiamo tutti, sappiamo tutto. Via Gradoli
era una delle prigioni di Moro? Sì. Un rifugio delle BR in un
quartiere che già loro conoscevano. Sappiamo tutto e sappiamo
tutti”.
La video-intervista è effettivamente stata segretata come risulta dall’elenco dei documenti rimasti riservati, elenco disponibile alla visione. Eccone l’estratto:
Ed ecco l’articolo de Il Fatto Quotidiano che riprendeva il lancio ANSA archiviato nel sito creato dall’ex componente della Commissione Moro 2, Gero Grassi:
Francesco Fonti, il Sismi e Via Gradoli
Ad aggiungersi a questa preziosa testimonianza della Anselmi, che il lancio Ansa e il pezzo del Fatto riportano virgolettati con estrema precisione, arrivano le parole di un ex collaboratore di giustizia di ‘ndrangheta, poi deceduto, Francesco Fonti (fondamentale il suo contributo per la nave dei veleni) che durante il sequestro a marzo e poi nei primi giorni di aprile aveva tentato, su una prima richiesta, di informare la DC della esistenza del Covo di Via Gradoli (protagonista il covo tra l’altro di una mancata perquisizione a due giorni dalla strage di Via Fani il 18 marzo 1978: l’unico appartamento “sfuggito” a un controllo in quello stabile) riferendo anche della presenza dell’on. Moro in quei primi giorni di aprile. È infatti proprio intorno al 9 e 10 aprile che avviene un cambio di strategia e uno spostamento dell’onorevole Moro in altra prigione (nonostante si voglia tutt’oggi ancora affermare che l’unica prigione in cui fu tenuto l’ex presidente DC sia stata solo la nota abitazione in Via Montalcini). Anche Fonti riferisce le stesse parole al giornalista Riccardo Bocca che lo intervista su L’Espresso «Tutti sapevano tutto». Fonti riferisce che a informarlo poi della imminente liberazione dell’onorevole Moro e del blitz in Via Gradoli 96 era stato l’allora capo del Sismi, il servizio militare nato insieme al Sisde con la riforma del 1977, Giuseppe Santovito. Tutti sapevano tutto, appunto, ma poi qualcosa avvenne che mandò in fumo l’iniziale volontà di liberarlo.

Di ‘ndrangheta e Caso Moro mi sono occupata e mi occupo molto per aver scritto un libro-inchiesta al riguardo e per l’ultima pubblicazione il 6 agosto apparsa su Il Fatto Quotidiano che riferisce di un altro fatto inquietante riguardante il 16 marzo 1978: la sostituzione di un agente con un altro, Francesco Zizzi, il giorno del sequestro e della strage dei cinque agenti. Rivelazione questa di un collaboratore di giustizia estremamente affidabile e mai smentito, Filippo Barreca, facente parte prima della sua collaborazione con lo Stato iniziata nel 1992 della componente di vertice della ‘ndrangheta, dove non soltanto i mafiosi più importanti erano inseriti. Una rivelazione tenuta nascosta (non segretata però) e riversata alla Commissione nel 2016 accompagnata nel mio pezzo da tanti elementi che la rafforzano. Questa struttura non poteva operare senza la partecipazione e l’avvallo di massoneria e funzionari di Stato inseriti nei gangli più delicati delle strutture statali. Anche su la Voce di New York diverse sono state le parti che riguardano questo aspetto del Caso Moro da me trattate (Qui, qui e qui).
Tutti fatti questi che consegnano, a chi vuole davvero vedere e capire, un quadro di verità composite ma chiaro nella sua essenza: Stato, partiti, mafie (non le manovalanze ma la loro struttura riservata) e strutture internazionali sapevano tutto e in alcuni casi hanno anche guidato, seguito e partecipato lungo il corso di quei 55 giorni alle varie fasi della vicenda. Un documento da me reperito e presente presso l’Archivio Centrale dello Stato all’Eur (raccolta speciale, Direttiva Renzi, doc. nr. nr. 13/255/5 del 5 ottobre 1991) riferisce – come pubblicato sul Fatto – che la Marina Militare occupata a cercare l’ostaggio in quei giorni fosse già pronta il 15 marzo all’evento. Il documento (comprensivo anche di un brogliaccio redatto dall’ammiraglio Tombolini presente nella documentazione della Commissione Moro 2) non è invece presente negli atti dell’ultima Commissione, o se lo è non è stato mai reso noto. E che cos’era la Marina Militare se non lo Stato? Per rispettare le regole dell’Archivio Centrale dello Stato non posso qui riprodurre il documento, ma ne ho citato i riferimenti in chiaro e sono disponibile a consegnarlo all’autorità giudiziaria insieme ad altro se davvero esiste la volontà di non far morire i diversi filoni aperti a Roma di questa vicenda che si trascina da ben 42 anni.
Tanti i colleghi che in buona fede e con spirito di ricerca della verità, nonché con il metodo di inchiesta anche storiografica, hanno affrontato il Caso Moro nelle sue diverse sfaccettature e risvolti oscuri che qui voglio citare: Paolo Cucchiarelli, Gianluca Cicinelli, Giovanni Fasanella, Marcello Altamura, Stefania Limiti, Carlo D’Adamo e altri. Molti i fatti rilevanti e inediti anche da loro fatti emergere che aiutano a far luce su questa infinita vicenda. Le fake news invece sono altre.