Cara ‘Merica, ricordi il 28 agosto 1963, Washington:
“…Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!…”.
Cara ‘Merica, sono migliaia, quel giorno, davanti al Lincoln Memorial, e Martin Luther King jr. parla a una folla di neri, bianchi, ogni etnia, al termine di una marcia per i diritti civili, la “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”. Esprime la speranza che un giorno tutti, a prescindere dal colore della loro pelle, del loro credo religioso, avrebbero goduto degli stessi diritti e opportunità…
Cara ‘Merica, cosa stai diventando, cosa già sei diventata? Dovresti preoccuparti. Certamente i tuoi “padri” fondatori, Alexander Hamilton, Benjamin Franklin Charles Kesler, George Washington, Terry Jordan, James Madison, John Jay, John Mardhall, Richard Hosftadter, Thomas Paine, ti stanno guardando inquieti, accigliati, severi. Quella loro Dichiarazione che costituisce il testo fondamentale su cui sei nata e prosperata, la stai tradendo. L’hai già tradita.
Cara ‘Merica: che la tua polizia sia (non solo a New York, non solo a Minneapolis, ma un po’ dovunque) qualcosa di molto diverso dai poliziotti bonaccioni dell’immaginaria cittadina di Mayberry (la vecchia serie di telefilm “Andy Griffith Show”, don Andy Griffith e Don Knotts), è cosa nota; i mille film che Hollywood ha produce sugli usi e gli abusi degli uomini in divisa, non sono invenzione filmica. Che il nero e l’ispanico siano visti con occhio particolare, e di conseguenza trattati, anche su questo non c’è da dubitare (si dirà: non sempre hanno torto; resta il fatto che nero e ispanico sono “pesati” per principio con un diverso metro, rispetto al bianco).
Cara ‘Merica: le “ruvidezze” della polizia degli Stati Uniti sono cosa storica. Ma uno può essere un tagliagole fin che si vuole, non giustifica che una volta in manette sia violentato con un manganello e gli altri intorno a ridere. Anche questo è accaduto, anni fa, a New York City.

Cara ‘Merica: c’è chi invita a considerare il “contesto”. Francamente non so che contesto vi sia da considerare, nel caso di George Floyd, il “negro” ucciso a Minneapolis. Delinquente o no, è ammanettato; è sdraiato per terra; disarmato; non oppone particolare resistenza, e comunque non è in grado di reagire se non con il fiato che gli resta in gola, quando un poliziotto per una quantità interminabile di minuti gli mette un ginocchio sul collo. Quello dice: “Non respiro”, e l’agente nulla, non allenta la presa. Gli altri tre a guardare. Nessuno dei tre dice: “Ehi! Quello sta male, smetti di premere!”. Niente. E il “negro” muore.
Cara ‘Merica: quale cosa abbia fatto prima, quel “negro” è vivo nelle mani di alcuni poliziotti; e mentre è da loro “custodito”, muore. In un paese che vuole essere civile, quando un cittadino è privato della sua libertà, chi gliela priva diventa, automaticamente responsabile e garante della sua incolumità fisica e psichica. Se al “prigioniero” accade qualcosa, il responsabile è il suo custode. Questo non dovrebbe essere discutibile, opinabile. O lo è? Se lo è, dimmelo, cara ‘Merica, e non tirarmi fuori il “contesto”.
Cara ‘Merica: che dire poi della troupe della “CNN” arrestata? Il giornalista non fa nulla, si limita a chiedere: “Che reato ho commesso?”. Ammanettato, portato via; e con lui il producer, un assistente, e l’operatore. Quali reati hanno commesso? Sì, un reato l’hanno commesso: quello di essere lì. Quello di vedere e di voler mostrare. Come nei paesi totalitari, non si deve vedere, non si deve sapere. Solo che qui siamo nella ‘Merica, non in Cina, in Russia, in Siria, in Corea del Nord. La troupe dopo un’ora è rilasciata, con tante scuse. Ma chi ha disposto l’arresto, è chiamato a risponderne?

Cara ‘Merica, ora vengo al “contesto”. Non c’è dubbio che nessuna delle manifestazioni violente animate da teppisti e mascalzoni sono giustificabili; vanno tutte condannate, senza “se”, senza “ma”. Senza far ricorso al “contesto”. NO e basta. NON giustificare però non significa che non si debba cercare di comprendere. Comprendere NON significa essere indulgenti, “buonisti”, caritatevoli. Significa solo cercare di capire perché certe cose accadono, possono accadere.
Cara ‘Merica: la prima cosa da spiegare (qui entrano in campo analisti, studiosi dei fenomeni della società, ricercatori), è come mai dal movimento progressista e anti-razzista negli anni Duemila non sia emerso un leader con l’autorevolezza, “l’appeal”, il carisma per guidare giuste rivendicazioni, protestare quando si deve protestare, negoziare quando si deve negoziare, facendo ricorso a due strumenti di lotta inscindibili: nonviolenza e diritto. Perché si deve andare indietro nel tempo, fare ricorso alla scolorita memoria: dopo Martin Luther King, o se si vuole (ma era “altro”) dopo Malcom X, chi? Al massimo si possono citare Ralph Abernathy, Andrew Young, Jesse Jackson, ma anche loro: vecchia guardia, e ben minore levatura… Ecco, forse una domanda che meriterebbe una risposta frutto di una serie riflessione è questa: perché non c’è più un Martin Luther King, capace oggi, con il suo “I have a dream”, di essere e dare speranza; di coniugare la forza del diritto con la nonviolenza?
Cara ‘Merica, una seconda considerazione. Alla Casa Bianca siede, oggi, il peggior presidente di sempre; al suo confronto anche Andrew Johnson assume la levatura del grande statista.
Cara ‘Merica, il “clima”, il “contesto” che si respira non in queste ore, è anche il raccolto della semina di mesi, di anni, di questo presidente: dalla cui bocca escono sempre e solo parole di odio, discriminazione, livore. Smargiassate pericolose come le recenti affermazioni: “Se fossero riusciti a superare la cancellata della Casa Bianca, i manifestanti che protestavano fuori dall’alloggio presidenziale contro l’uccisione di George Floyd “sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose che io abbia mai visto”.
Cara ‘Merica, solo qualche giorno fa l’inquilino della Casa Bianca ha fatto del suo meglio per fomentare le manifestazioni e le proteste contro i lockdown decisi dai governatori. Ha soffiato sul fuoco con i suoi tweet che invitano a “liberare” il Michigan, il Minnesota e la Virginia, tutti a guida democratica, per scatenare un’ondata di manifestazioni anche in altri Stati con governatori repubblicani come il Texas e il Maryland.
Cara ‘Merica, l’inquilino della Casa Bianca non ha detto una contro i manifestanti, che in Michigan scendono in piazza armati chiedendo l’arresto della governatrice Gretchen Whitmer con lo slogan: «Lock her up!». Anzi! Gli sono sembrate «persone molto responsabili».
Cara ‘Merica, la manifestazione più clamorosa e paradossale in Texas dove il governatore repubblicano Greg Abbott per primo annuncia il graduale allentamento della stretta. Nonostante ciò, nella capitale Austin un raduno ai piedi del parlamento «per protestare contro il lockdown autoritario imposto da meschini tiranni locali…manovra del partito comunista cinese e del “deep state” contro Trump».
Cara ‘Merica, se mi chiedi cosa c’entra l’inquilino alla Casa Bianca con i disordini del dopo Floyd, è questa la risposta: è responsabile di aver fatto emergere, di nutrire tutto il peggio che hai “dentro”. Invece di contrastare e combattere questi sentimenti di odio e di intolleranza, li usa, li cavalca.
Cara ‘Merica, alla fine, le due domande cruciali sono: a) Perché alla Casa Bianca c’è chi c’è? b) Perché non c’è un Martin Luther King e non abbiamo più la forza di dire: “I have a dream”?