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Le spie al tempo del coronavirus, la caccia all’untore e la nuova colonna infame

Come nel celebre romanzo di Manzoni, anche questa volta è servito un capro espiatorio al quale addossare ogni colpa del contagio per placare il popolo

Alina Di MattiabyAlina Di Mattia
Le spie al tempo del coronavirus, la caccia all’untore e la nuova colonna infame

Cottonbro Photo Credit

Time: 6 mins read

Quattrocento anni ci separano da quel biasimevole processo raccontato da Alessandro Manzoni in una Milano flagellata dalla peste, in cui la caccia all’untore sembrava essere l’unica soluzione all’epidemia. Quattro secoli che, alla luce della moderna ‘inquisizione’,  sembrano non averci insegnato nulla. Tant’ è vero che con le moderne Caterina Rosa e le altre ‘donnicciole’ –  ma potremmo anche parlare di ‘omiccioli’ –  si potrebbero scrivere 365 storie di infamia, una per ogni giorno dell’anno, per raccontare quanto una parola sbagliata, mal posta, o peggio, male interpretata, possa decidere la sorte di una persona, condannare la sua vita, il suo lavoro, una relazione affettiva. Figuriamoci una denuncia, o meglio, una spiata al tempo del Coronavirus.

La colonna infame del Manzoni

La  “Storia della colonna infame” è ben nota a chi abbia letto almeno una volta “I Promessi Sposi”. Un’appendice del grande romanzo manzoniano che per una serie di dinamiche somiglia tanto alla nostra emergenza sanitaria attuale e, soprattutto,  alla risposta sociale data da una popolazione terrorizzata e oppressa dallo spettro di un’infezione che non fa sconti a nessuno. Difatti, davanti a quella peste che stava consumando la popolazione, mentre  la medicina brancolava nel buio, scattò la riprovevole caccia all’untore. Un capro espiatorio al quale addossare tutto il male ed ogni colpa del contagio, quasi per consegnare al popolo uno strumento per lenire la sofferenza e placare le paure.  Fu proprio il banale sospetto di una popolana, trasformato in vile menzogna, a decretare la condanna a morte di due innocenti con l’accusa di diffondere la peste. I due poveri sventurati, il barbiere Gian Giacomo Mora e il commissario della Sanità Guglielmo Piazza, vennero torturati per giorni con il supplizio della ruota ed infine giustiziati, senza colpe e senza uno straccio di prove. A conclusione del vile atto, sulle macerie della casa/bottega del barbiere fu eretta una colonna con la descrizione delle pene inflitte. Un monito destinato ai potenziali untori. Dovranno trascorrere 150 anni prima di trasformare quel manufatto in un monumento contro i giudici che commisero una grave e indicibile ingiustizia.

Quanti anni dovranno trascorrere, invece, per realizzare l’entità della nostra turpitudine durante l’emergenza da Coronavirus? Perché è davvero sconcertante come  questa congiura ordita contro i presunti untori sia sopravvissuta nei secoli fino ad oggi. “People policing people”, dicono gli americani. Già, perché, diciamocelo chiaramente,  siamo stati alquanti perfidi durante questa emergenza.

“3 italiani su 4 favorevoli a denunciare i vicini che contravvengono alle regole del  Dcpm e a farli sbattere in galera. O anche a fargli fare il TSO qualora perdesse il controllo dopo giorni e giorni chiuso in casa”.

Lo afferma un sondaggio di Coldiretti/Ixé.  Un dato inquietante che ricorda l’atteggiamento degli informatori del periodo nazifascista o comunista bolscevico,  nonostante ci sia –  di fondo, ma molto di fondo  – un certo livello di responsabilizzazione della popolazione.

Con il senno di poi, siamo certi di esserci comportati bene a denunciare e/o accusare a casaccio questo e quello? O ad attaccare chiunque tentasse di fare un’informazione alternativa (e spesso più attendibile) di quella ufficiale?

La nostra colonna infame, il monito per i potenziali untori, è stata rappresentata dalle più grossolane e scriteriate gogne sui social che hanno messo a repentaglio la reputazione di brave persone, eccezionali medici e persino di giornalisti, oltre dalla mole di multe inflitte a cittadini non necessariamente incoscienti, ma vittime di un sistema che invece di aiutare le persone a salvarsi e a proteggersi,  ha tentato di affogarle nel calderone dell’infezione stessa.

Sono numerose le storie raccontate dai media: dall’anziano multato per aver acquistato ‘soltanto’ una bottiglia di vino, alla ragazza sanzionata mentre andava dal medico accompagnata dalla madre, ai genitori che ‘scandalosamente insieme’ portano la loro bambina ad un controllo per una leucemia, ad un dottore che si reca in farmacia per acquistare un farmaco per un paziente, a funerali interrotti dallo sceriffo di turno. Come se il dolore non fosse abbastanza.  E per non parlare della caccia al runner solitario per la quale mi astengo dal commentare!

Di vicende inverosimili ce ne sono infinite.

Accerchiati, additati, sanzionati, denunciati, scherniti:  milioni di cittadini innocenti sono stati trattati alla stregua di criminali pericolosi, cosa peraltro in attrito con il lassismo adoperato nei confronti di delinquenti di chiara fama. Due pesi e due misure.  Restrizioni ai fondamentali diritti, misure coercitive non sempre in linea con i principi generali dell’ordinamento giuridico, il tutto per proteggere la nostra salute.  E la salute psichica è stata considerata? E al denaro sottratto ai cittadini, già in ginocchio per le attività commerciali ferme, qualcuno ci ha pensato?

Interessante osservare che, se all’epoca del Manzoni individuare le colpe nei presunti untori servisse in un certo qual modo a sedare le rivolte popolari, oggi, con lo stesso metodo, si riesce a deviare l’attenzione su un sistema inadatto a dare risposte adeguate ai cittadini e sprovvisto, non soltanto degli strumenti di cura (fatta eccezione per uno straordinario esercito di medici e personale sanitario),  anche di un efficiente protocollo per salvaguardare la salute delle persone comprese quelle più a rischio come pazienti disabili e portatori di patologie invalidanti.

Se la caccia all’untore pestifero faceva leva sull’ignoranza popolare, la caccia all’untore del coronavirus ha trovato terreno fertile nella ridondanza di news e fake news e sulle paure rimbalzate da persona a persona, da social a social, da inqualificabili titoloni di giornali che, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ci hanno trasformato in cani rabbiosi, pronti a mordere chiunque per stanchezza, per impotenza, per timore, ma anche per una sottile invidia sociale che da qualche anno si è stabilita nelle nostre comunità. “Io resto a casa, pertanto ci resti anche tu. E chissenefrega se la tua uscita è necessaria, se tua madre deve fare la chemioterapia (ci va in autobus!), se la tua bambina deve recarsi in ospedale (basta un genitore!), se hai bisogno di varcare la soglia di casa per allontanarti da un marito violento, se ti manca l’aria, se abiti in un monolocale, se sei uno sportivo e l’allenamento è vitale per te. Stai a casa! E guai a fare un assembramento con i tuoi cugini. Ti denuncio. Anzi, chiamo l’influencer più incarognita del momento e ti metto alla gogna sui social!”. Tutto tragicamente reale.

È  pur vero che nel realizzare che la nostra vita perfetta si sia improvvisamente inceppata, e che vivere in Italia, negli Stati Uniti, in Medio oriente o in Africa non ha fatto nessuna differenza, ci ha notevolmente destabilizzato. Le immagini della nostra gente uccisa dal virus ci hanno spaventati, e l’angoscia  si è tradotta  in diffidenza, distanziamento sociale, occhi curiosi e non benevoli che hanno sbirciato ogni movimento dell’altro, mentre smorfie di disappunto venivano ben celate dalle mascherine.   

Tutti contro tutti.

Vi è capitato di tossire per strada durante queste settimane? È mortificante quello che può accaderti intorno. Provare per credere.

Ma dove finisce il buon senso ed inizia l’arroganza, o meglio, la perfidia? E quando si oltrepassa il limite? Non lo sapremo mai, o forse lo appureremo anche noi, tra 150 anni, e riscriveremo la nostra colonna infame. Intanto, adesso, mentre il lockdown si avvia verso il suo ultimo atto, e in previsione di riassaporare il gusto di una camminata in un parco o di una passeggiata sul lungomare senza essere necessariamente inseguiti da elicotteri e sceriffi, ci lecchiamo le ferite come cani bastonati, ben consapevoli che il ritorno alla normalità sarà popolato dai fantasmi di una quarantena che non abbiamo digerito. I costi umani, economici e psicologici che ne seguiranno saranno incalcolabili.

Personalmente avevo immaginato orizzonti differenti dopo questa pandemia. Avevo prospettato una radicale trasformazione dell’umanità, più compassionevole e magari più sensibile alle problematiche del prossimo.  Un futuro a misura d’uomo in cui ci saremmo occupati consapevolmente del pianeta Terra, della Natura  e di tutti i suoi esseri viventi, e in cui saremmo stati globalmente e spiritualmente connessi,  diventando meno individualisti e di sicuro meno cattivi. Insomma, la pandemia come castigo per la salvezza dell’umanità.

Evidentemente mi sono sbagliata.

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Alina Di Mattia

Alina Di Mattia

Artista del vecchio mondo, scrittrice del presente, Alina Di Mattia è nata nel cuore d’Italia e vissuta con il mondo cucito addosso. Si è occupata della produzione e della comunicazione di grandi eventi istituzionali e culturali ed è stata promotrice di campagne di sensibilizzazione sociale. All'attività artistica e manageriale ha affiancato quella di giornalista freelance. Il suo motto preferito: “Le ali per volare, le radici per non perdersi mai”. Alina Di Mattia is an Italian journalist, blogger and author with over thirthy years of experience in Media and Communication. She has dealt with Music and Show Business, press office and promotional activities, special events with public Administrations, and has promoted social awareness campaigns. Her favorite motto: “Wings to fly, roots to never get lost”.

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