QUI PER SEGUIRE IL DIARIO DEL PROF. STEFANO ALBERTINI
Vivo e lavoro a New York, sono in sabbatico e ne ho approfittato per tornare in Italia, al mio paese, Bozzolo, in provincia di Mantova per fare un po’ di ricerca in archivio per un progetto al quale sto lavorando e per stare un po’ con mia madre che si sta riprendendo dai postumi di una frattura. Arrivato a Malpensa, il 12 febbraio sono stato accolto per la prima volta da persone in camice bianco che misuravano la febbre con un laser a tutti i passeggeri in arrivo. Poi l’epidemia è scoppiata, io mi ci sono trovato in mezzo e non so quando potrò tornare negli Stati Uniti.
Stefano Vaccara, mi ha chiesto di scrivere ogni tanto qualche pagina sulle mie giornate in regime di lockdown e sul clima che si respira in Lombardia in questi giorni. Lo farò volentieri e in maniera molto informale: un paragrafo o due come si fa quando si racconta qualcosa agli amici.
I titoli a cui abbiamo pensato per questo diario da un’Italia in stato di assedio potrebbero essere due. Quale vi sembra più adatto?

a) “The Scarlet Zone” si riferisce, ovviamente alla “zona rossa”, l’epicentro dell’epidemia nelle zone di Codogno e Lodi (Lombardia) e di Vo (Veneto). Questa definizione non esiste più e dopo le misure draconiane che queste comunità hanno sperimentato prima del resto d’Italia, questi centri stanno cominciando a registrare una drastica riduzione dei contagi. Questo titolo contiene, ovviamente, anche due riferimenti: uno letterario e uno televisivo. Il romanzo storico dello scrittore Americano Nathaniel Hawthorne, The Scarlet Letter e la serie televisiva The Twilight Zone.
La lettera scarlatta, rappresenta per gli americani il grande romanzo nazionale che I promessi sposi rappresentano per gli italiani. La lettera del titolo si riferisce alla ‘A’ di adultera che la giovane Esther Prymm è condannata a portare dalla comunità puritana di Boston in cui vive a metà del ‘600 per aver avuto una figlia fuori dal matrimonio. Esther sfida le autorità politiche e religiose del suo tempo trasformando la ‘A’ dell’infamia in un raffinatissimo e prezioso ricamo. Uno dei comportamenti più inquietanti di questa epidemia è l’impulso a trovare e ‘marchiare’ l’untore, il paziente zero, il colpevole senza colpe, il capro espiatorio. Hawthorne ci ammonisce a non marchiare gli altri e a giudicare e migliorare soprattutto i nostri comportamenti sociali e individuali.
The Twilight Zone (in italiano Ai confini della realtà), è una serie fantascientifica TV americana iniziata nel 1959 e durata per ben 5 stagioni, seguita da due serie con lo stesso titolo (1985 e 2002) e film per la televisione. La serie originale veniva così riassunta nella versione italiana mentre la musica dei titoli di testa cominciava già a darti i brividi: «C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi “Ai confini della realtà”.» Poche righe che, negli ultimi giorni mi sembrano descrivere la situazione che stiamo vivendo nella “zona Italia”.

b) For Whom the Bell Tolls 2.0
Da bambino, quando d’estate stavo dalla nonna Luigina , si aprivano le imposte, entrava prepotente la luce del primo sole e se le campane della chiesa di Canneto suonavano a morto (in maniera diversa per un uomo, una donna o… il Papa), la nonna chiedeva urlando alla zia Anna, che era già uscita a prendere il pane appena sfornato: “Anna, chi ghè mort?” e la zia dal giardino urlava un nome e ne tracciava la genealogia per far capire meglio l’identità del defunto. Il nonno scriveva un elegante biglietto di condoglianze mentre beveva il caffè e io andavo a imbucarlo. Le campane servivano anche a quello.
Da adulto lessi il capolavoro di Hemingway, For Whom the Bell Tolls ambientato durante la guerra civile spagnola e scoprii che il titolo veniva in realtà da una meravigliosa meditazione di John Donne:
“No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main. If a clod be washed away by the sea, Europe is the less, as well as if a promontory were, as well as if a manor of thy friend’s or of thine own were: any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind, and therefore never send to know for whom the bells tolls; it tolls for thee.”
(Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te)
Capii esattamente cosa voleva dire Donne, ma è solo in queste ultime settimane che ho veramente interiorizzato la sua riflessione: mentre le certezze cadono, chi credeva di essere immortale, invincibile, immune, ricco, si ritrova a confrontarsi con la propria fragilità e debolezza. Mentre le televisioni di tutto il mondo, le tristi campane del nostro tempo, ogni giorno ci svegliano con allarmanti bollettini che sembrano preludere a un’apocalisse, ognuno di noi, ancora una volta, dovrebbe fare i conti con la sua umanità e con le responsabilità che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri. Tutti gli altri.
Prometto che i prossimi interventi saranno meno letterari, forse, più personali e, spero, meno desolanti. Nel frattempo, se volete, fatemi sapere qual è il titolo che preferite.