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Coronavirus, i compiti e gli esami di letteratura: Boccaccio e Manzoni gli anti-virus

La letteratura ci dà la consapevolezza che l’umanità ha già superato situazioni simili avvertendoci di non perdere completamente la nostra razionalità

Stefano AlbertinibyStefano Albertini
Coronavirus, i compiti e gli esami di letteratura: Boccaccio e Manzoni gli anti-virus

John William Waterhouse: "The Decameron" (Liverpool Museum)

Time: 3 mins read

Cosa ci insegna la letteratura di utile a proposito del Nuovo Coronavirus? La prima risposta è “Nulla!” e, in effetti, di utile la letteratura di per sé insegna poco: non sconfigge malattie, non innalza edifici, non fa funzionare le fabbriche, non crea nuovi materiali.  In questo ultimo mese sembra però trovarsi in buona compagnia, visto che anche le scienze biomediche dalle quali attendiamo impazienti la soluzione alla fine di questo incubo ci hanno, finora, detto ben poco. Sia ben chiaro che i ricercatori del settore, che, spesso, a rischio delle loro stesse vite, lavorano giorno e notte per isolare il virus, individuarne i vari ceppi e capire come rallentarne la diffusione e sconfiggerlo, meritano l’eterna riconoscenza dell’umanità, ma fino ad ora purtroppo hanno potuto distillare solo poche indicazioni utili: lavarsi le mani spesso, mantenere le distanze, evitare i luoghi affollati.

In queste settimane, dominate da un chiacchiericcio pettegolo e insopportabile in cui le soubrettes e i tuttologi pontificano in TV su mutazioni genetiche, cause e rimedi dell’epidemia, la letteratura, l’inutile letteratura dovrebbe prendere il posto centrale nell’esperienza formativa dei nostri giovani proprio mentre non hanno accesso alle aule scolastiche. Partiamo da due esempi canonici della letteratura italiana ben noti e ampiamente citati. I due capolavori assoluti della nostra prosa hanno, infatti, al centro due epidemie devastanti: la peste nera del 1348 che causò la morte del 30/50% dell’intera popolazione europea e fu immortalata nell’Introduzione al Decamerone di Giovanni Boccaccio, e la peste del 1630, descritta, analizzata e resa epica nei capitoli finali dei Promessi Sposi di Manzoni.

Le torture e l’esecuzione degli “untori” durante la peste a Milano del 1630.
Torture and execution of the ‘anointers’ in the plague epidemic at Milan, 1630; anon. (Orazio Colombo) after engraving by ‘Bassano’ or ‘Francesco Vallato’.
(Wellcome collection)

In entrambi i casi, la peste non sta sullo sfondo, ma diventa quasi un personaggio, un fattore centrale della narrazione e sia Boccaccio che Manzoni spiegano come la malattia, il contagio e la paura di esso provochino stravolgimenti sociali e comportamentali che nessun’altra situazione può causare. La psicosi della caccia all’untore come capro espiatorio (oggi si dice ‘paziente zero’), il diffondersi delle teorie più strampalate sulle cause e gli effetti della malattia, l’inerzia delle autorità e la contraddittorietà dei loro provvedimenti. E questi sono solo alcuni degli elementi narrativi che rendono tanto attuali i due capolavori. Vale la pena spegnere la TV e i cellulari, per andare a rileggere quelle pagine e magari parlarne coi propri figli. Del Covid-19 non impareremo niente di più, ma impareremo qualcosa di più sugli esseri umani, sulle loro meschinità e, a volte, l’eroismo a cui situazioni estreme come questa, li portano.  La letteratura ci dà la consapevolezza che l’umanità ha già superato situazioni simili a quella in cui ci troviamo e ci rassicura sul fatto che se non perderemo completamente la nostra razionalità, la nostra pietas e un po’ di sano pragmatismo, possiamo guardare con fiducia a un futuro migliore. Dopo la peste nera del Trecento arrivò l’esplosione di arte e cultura del nostro Rinascimento; dopo la peste di Milano arrivò l’Illuminismo e la rivoluzione scientifica.   

Dopo avervi dato i compiti, non resisto alla tentazione di farvi un esame, un esame di umanità, non di letteratura. Lavatevi bene le mani, prendete uno dei fazzoletti monouso di cui avrete fatto scorta in questi giorni, andate al capitolo XXXIV dei Promessi Sposi e iniziate a leggere il paragrafo che comincia con “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…”. Continuate a leggere fino a “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”  Passatevi il fazzoletto di carta sugli occhi. Se sarà ben imbevuto di lacrime, complimenti! Avete passato l’esame. Se è rimasto asciutto, peccato! Siete stati bocciati in umanità e dovreste leggere almeno un altro libro,  in cui l’umanità affronta in maniera metaforica o reale la malattia e il contagio. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dalla Peste di Camus, a Cecità di Saramago, a L’amore al tempo del colera di García Márquez.

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Stefano Albertini

Stefano Albertini

Sono nato a Bozzolo, in provincia di Mantova. Mi sono laureato in lettere a Parma per poi passare dall'altra parte dell'oceano dove ho conseguito un Master all'Università della Virginia e un Ph.D. a Stanford. Dal 1994 insegno alla New York University e dal 1998 dirigo la Casa Italiana Zerilli Marimò dello stesso ateneo. Alla Casa io e la mia squadra organizziamo un centinaio di eventi all'anno tra mostre, conferenze, concerti e spettacoli teatrali. La mia passione (di famiglia) rimane però l'insegnamento: ho creato un corso sulla rappresentazione cinematografica della storia italiana e uno, molto seguito, su Machiavelli. D'estate dirigo il programma di NYU a Firenze, ma continuo ad avere un rapporto stretto e viscerale col mio paese di origine e l'anno scorso ho fondato l'Accademia del dialetto bozzolese proprio per contribuire a conservarne e trasmettere la cultura.

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