Ci risiamo: come ormai accade di continuo i media riempiono le loro prime pagine di titoloni. Poi dimenticano di dire alcune “cosette”.
Oltre all’epidemia da Coronavirus (da oggi internazionale) proveniente dalla Cina, la notizia del giorno pare essere la Brexit. Dalle 5 pm di oggi (ora di NY), venerdì la Brexit sarà ufficiale. Grandi manifestazioni. A Londra è iniziato il conto alla rovescia che vedrà l’ultima ora proiettata su n.10 di Downing Street. Ma non basta, Nigel Farage guiderà una manifestazione in Piazza del Parlamento, dove alle aste delle sventoleranno le bandiere del sindacato.
Da domani il Regno Unito sarà ufficialmente fuori dall’Unione Europea. Anzi no. Sì perché quello che i giornali hanno dimenticato di dire è che, in realtà, per tutto il 2020 non cambierà quasi nulla: il Regno Unito rimarrà nel mercato unico e nell’unione doganale fino alla fine dell’anno, come prevedono gli accordi di transizione. Eventuali, improbabili “arretramenti o mezze misure” potrebbero comportare solo sanzioni economiche, come ha sottolineato il consigliere di Michel Barnier Stefaan de Rynck la scorsa settimana.
Ma anche sul “dopo”, ovvero ciò che accadrà dal prossimo anno, non si sa molto. L’accordo firmato e più volte sventolato e sbandierato pubblicamente, per molti aspetti non scende nel dettaglio su come si dovranno comportare le due parti in causa, ovvero l’Unione Europea e il Regno Unito. 585 pagine (questa è la dimensione dell’accordo finale sottoscritto) che non sono bastate a spiegare “cosa fare” e soprattutto “come”.
Il lavoro per mettere in atto quanto previsto dall’Art.50 del trattato dell’Unione Europea (ovvero quello che riguarda l’uscita dall’UE), in realtà, è appena iniziato. Gli uffici tecnici incaricati (a cominciare dal HMRC e dal Comitato operativo dell’UE) sono in fibrillazione per capire cosa fare.
Fino ad allora non cambierà quasi niente. A cominciare da uno dei temi finora più discussi: la permanenza dei cittadini dei paesi dell’UE (ma anche di Islanda, Liechtenstein e Norvegia) nel Regno Unito. Ebbene la scadenza per presentare la domanda per poter continuare a vivere nel Regno Unito è stata fissata dall’ufficio competente, l’EU Settlement Scheme, al 30 giugno 2021.
Lo stesso per quanto riguarda l’acquisto di beni e prodotti: il governo britannico ha tenuto a rassicurare tutti. E’ vero che “potrebbero esserci modifiche a cose come i tuoi diritti dei consumatori e quante tasse devi pagare quando acquisti prodotti o servizi dall’UE, dalla Norvegia, dal Liechtenstein e dall’Islanda”, ma solo dall’ 1 gennaio 2021. Anche i diritti dei consumatori saranno gli stessi.
E così per quanto riguarda ambiti specifici come i divorzi tra coniugi del UK e dell’UE: fino a gennaio 2021 non cambierà nulla. E dopo? Ancora non è del tutto chiaro.
Anche gli studenti (si pensi agli studenti che beneficiano di una borsa di studio nell’ambito del programma Erasmus) potranno continuare almeno per tutto l’anno corrente. Se poi a trovarsi oltre frontiera non è una persona fisica ma un soggetto giuridico come un’azienda o un’organizzazione, anche in questo caso il governo di sua maestà la regina si è premurato di fornire tutte le informazioni per vivere “la Brexit senza pagare nulla”.
Ieri il Parlamentari europei hanno messo in scena uno spettacolo commovente e toccante. Tra pianti e cori d’addio nessuno di loro si è preoccupato di dire ai propri elettori che, in realtà, i veri lavori per decidere le condizioni dell’uscita del Regno Unito dall’UE non potranno cominciare prima di marzo. La Commissione europea, infatti, (che ha dato il via ad un processo in 30 fasi per concordare i propri obiettivi di negoziazione prima di Natale) dovrebbe ottenere la firma da parte degli Stati membri in una riunione del 25 febbraio. Fino ad allora non potrà fare praticamente nulla. Dall’altro lato del tavolo dovrebbe esserci David Frost, che ha sostituito Oliver Robbins come capo negoziatore, accompagnato da un team di una trentina di esperti (soprattutto degli affari pubblici e del commercio – ovvero i temi che davvero interessano).
A questi due gruppi dovrebbe unirsi un comitato misto di rappresentanti dell’UE e del Regno Unito incaricati di sovrintendere all’attuazione del trattato. Tra i compiti di questo comitato dovrebbe esserci anche la verifica degli obblighi finanziari della Gran Bretagna verso l’UE, stimato in circa 44 miliardi di Euro. La prima riunione non è prevista prima dell’ 1 febbraio, ma ancora non si sa molto su temi importanti come le procedure per la nomina, il numero dei componenti il comitato e la frequenza degli incontri.
Come se non fosse abbastanza, a questo si aggiungono alcuni aspetti legati alle conseguenze della Brexit. Il primo potrebbe essere la quota azionaria dell’UK nella BCE: consentire a Bank of England, soggetto oltre che “esterno” ormai “estero”, di possedere oltre il 13% delle azioni della BCE dovrebbe richiedere analisi approfondite e scelte politiche tutt’altro che secondarie.
Ma di questo gli europarlamentari commossi non hanno parlato. Così come non hanno detto cosa faranno ora con le Borse: nel 2007 la Borsa di Milano si è fusa con la Borsa di Londra (London Stock Exchange). Nel 2016, a loro si è unita Francoforte attraverso la creazione di una holding che ha acquisito i due gruppi leader quello a Londra e quello a Francoforte. Già allora la Commissione europea sollevò seri dubbi sulla manovra a causa della gestione del Mercato dei titoli di stato, una piattaforma di Borsa Italiana che ogni giorno movimenta fino a 90 miliardi di euro. Secondo l’Antitrust europeo, Londra avrebbe dovuto prima liberarsi del Mercato dei titoli di stato (Mts).
E proprio in quella occasione, si disse che questa fusione avrebbe dovuto essere ridiscussa nel caso di approvazione della Brexit. Ora la Brexit è ufficiale (almeno sulla carta), ma del problema delle Borse (e dei titoli di Stato) non parla più nessuno. Così come nessuno si è preso la briga di prevedere la possibilità di un’ulteriore trattativa post-Brexit. Tanto più che a controllare le due Borse europee (con poco più del 50% delle azioni) è la London Stock Exchange LSE una società il cui presidente è il britannico Donald Brydon (e della quale azionista principale sarebbe niente meno che il Qatar!).
E ancora. Lo scorso anno, Neil Renwick, professore della Coventry University, dichiarò che “superficialmente Brexit sembra abbastanza semplice; ma se si scava solo un po’ più a fondo le complessità sono rapidamente evidenti. Ciò è particolarmente vero per il settore della sicurezza”. Non è un caso se nei giorni scorsi, l’ambasciatore inglese in Italia Jill Morris si è premurato di rassicurare i giornalisti italiani che i rapporti con l’Italia continueranno ad essere ottimi anche in questo settore. Il “periodo di transizione terminerà il 31 dicembre 2020” e che potranno essere stretti protocolli che riguardano i rapporti tra strutture di intelligence bilaterali. Cosa significa questo che di questo problema nei documenti della Brexit non si parla affatto.
Anche la cybersicurezza è un tema spinoso. Lo scorso anno, l’analista di Deloitte, Martina Calleri, dichiarò che “ la sicurezza cyber costituisce una sfida transfrontaliera e intersettoriale per gli Stati membri dell’UE, le cui infrastrutture critiche sono state sempre più digitalizzate e quindi più interconnesse e interdipendenti”. “All’indomani della Brexit, sarà ancora possibile per l’UE e il Regno Unito creare fiducia, rafforzare le capacità informatiche e gestire congiuntamente le crisi informatiche? Durante i negoziati sulla Brexit non è stata formulata alcuna chiara ipotesi che indichi cosa sarà necessario modificare per mantenere il Regno Unito nel quadro della sicurezza informatica dell’UE”.
Tanti, tantissimi nodi tutti ancora da sciogliere. Ma dei quali i membri del Parlamento europeo, dopo anni e anni di incontri e trattative, non hanno parlato. Sorge il dubbio su quanti europarlamentari hanno letto il famoso documento di 585 pagine (e quanti hanno approfondito i temi legati alla Brexit e le conseguenze per i loro connazionali). Per loro, conterà solo essere apparsi al Tg, commossi, con un fazzoletto in una mano e nell’altra la mano del vicino, mentre nell’aula veniva intonavano il tradizionale canto scozzese “Auld Lang Syne”. Senza sapere forse che proprio la Scozia è l’unica regione del Regno Unito che sarebbe voluta rimanere nell’UE.