Hala Al Ghawi, quando parla, soppesa le parole. Sceglie con cura i termini da usare per descrivere ciò che è quasi impossibile immaginare. La privazione della libertà, per un essere umano, è sempre esperienza dolorosa, ma in contesti dove i più basilari diritti non sono garantiti lo è anche di più. La Siria, drammaticamente tornata d’attualità per la recente offensiva militare turca contro le milizie curde nel nord del Paese, è uno di quei luoghi. Era il 26 settembre 2011; 20 giorni prima, l’allora Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-Moon aveva redarguito il governo di Bashar Al Assad a proposito delle violente repressioni messe in atto contro i manifestanti che si riversavano per le strade. Quel giorno, il marito di Hala, lo psichiatra Mohammad Abo-Hilal, è stato arrestato. Lei, medico chirurgo, era incinta di 7 mesi.
“Lo definirei un sequestro”, spiega Hala. “Parlare di ‘prigione’ sarebbe scorretto, perché non si tratta di un carcere civile. Era, piuttosto, una fossa”. Un luogo dove tutti i diritti vengono sospesi: “Non puoi avere contatti con i tuoi familiari o con un avvocato, né ricevere cure mediche”. Persino respirare diventa faticoso in quell’ambiente sovraffollato, buio e sporco, ed è impossibile trovare spazio per stendersi e riposare.
Mohammad Abo-Hilal ha vissuto 70 giorni in quelle condizioni, mentre la moglie dava alla luce il loro terzo figlio. “Non sapevo dove si trovasse, né, esattamente, da chi fosse stato arrestato”. Improvvisamente, il 5 dicembre, una telefonata ne ha annunciato il rilascio. “Quando l’ho rivisto, quasi non lo riconoscevo. Era magrissimo ed esausto, aveva perso più di 20 kg. È rimasto in silenzio, isolato e depresso, per più di due mesi. Solo più tardi mi ha raccontato di essere stato più di 40 giorni in una cella di isolamento, dove non gli era permesso neppure lavarsi. Lo hanno picchiato, e lo minacciavano di portargli via membri della sua famiglia”.
Più tardi, anche il fratello e il suocero di Hala sono stati arrestati, ma, a differenza del marito, di loro si sono perse le tracce. Una sorte condivisa da decine di migliaia di persone in Siria. Difficile stabilirne il numero esatto, vista l’assenza di dati ufficiali a causa dell’impossibilità di accedere ai luoghi di detenzione e ai registri di ospedali e siti di sepoltura. Eppure, secondo Rosemary DiCarlo, Sottosegretario Generale a capo del Dipartimento per gli Affari politici delle Nazioni Unite, la Commissione di Inchiesta Internazionale sulla Siria e alcuni gruppi sul campo riferiscono di 100mila persone fino ad oggi scomparse, detenute o sequestrate, che si troverebbero in larga maggioranza, ma non unicamente, nelle mani del Governo. Simili abusi, infatti, sono stati perpetrati anche da gruppi terroristici come Daesh e Hay’at Tahrir al-Sham, e da gruppi armati affiliati all’opposizione. Alcune famiglie sarebbero state costrette a pagare enormi somme di denaro nella speranza, spesso vana, di ottenere informazioni. E le donne sono tra le principali vittime di questa situazione: anche quando non detenute in prima persona, su di loro ricade il peso dell’intera famiglia quando i loro mariti scompaiono. Il rischio, se non possiedono alcun certificato di morte o documentazione ufficiale, è quello di perdere i propri diritti legali, la propria casa o la propria terra.
Lo sa bene Amina Khoulani, attivista siriana che, insieme ad Hala e ad altre donne, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 ha lanciato il movimento “Families for Freedom”. Le attiviste chiedono la liberazione dei prigionieri e si battono perché sia consentito l’accesso ai centri di detenzione a familiari e organizzazioni umanitarie, sia garantita la fornitura di cibo e medicinali ai prigionieri e vengano aboliti i procedimenti sommari davanti ai tribunali militari che operano sotto stato di emergenza. “Mi sono votata alla lotta contro le detenzioni arbitrarie e le sparizioni forzate”, spiega Amina, “perché rappresenta la ferita più sanguinante della nostra rivoluzione”. A partire dal 2011, la donna ha attivamente partecipato alle proteste contro il Governo, e nel 2013 è stata arrestata insieme al marito da ufficiali dell’Air Force Intelligence siriana. “Hanno perquisito la nostra casa di Damasco e ci hanno portati via davanti ai nostri figli”, ricorda. Da allora, è iniziato il suo calvario. “Sono rimasta prigioniera per sei mesi, durante i quali sono stata trasferita più volte, fino al mio rilascio nel marzo 2014”. Suo marito, invece, è rimasto incarcerato per due anni e mezzo. Sono stati liberati, racconta, “solo dietro pagamento illecito di ufficiali vicini al regime. Mi rattrista il pensiero di aver dovuto scendere a patti con lo stesso regime corrotto contro cui ci siamo ribellati. Ma era l’unico modo”.
Anche Amina, come Hala, ha ricordi terribili della sua detenzione. La donna racconta infatti di essere stata vittima di torture fisiche e psicologiche insieme al marito: “Un giorno, per fare in modo che smettessero di picchiarlo, ho dovuto firmare la mia confessione senza neppure leggerla”. Anche i suoi quattro fratelli sono stati, in tempi diversi, arrestati. Solo uno, Bilal, è sopravvissuto, mentre della morte di un altro di loro, Mohamed, la famiglia ha avuto notizia certa grazie a una macabra fotografia. La sua immagine, infatti, era tra le 55mila foto scattate tra il 2011 e il 2013 da Caesar, ex militare che, insieme ad altri ex ufficiali, documentò le torture subite dai prigionieri delle carceri di Assad.

Di qui, l’impegno delle due donne: “Chiediamo che i nostri cari vengano liberati, o almeno di conoscere la verità sul loro destino”, afferma Hala. Dopo il rilascio del marito e il trasferimento in Giordania, sul finire del 2011, i due consorti hanno cominciato a collaborare con altri medici per fornire supporto psicosociale ai rifugiati in fuga dalla Siria. Nel campo profughi di Zaatari, il più grande al mondo che ospita siriani, Hala ha iniziato a documentare gli abusi subiti da vittime di tortura e violenza provenienti dall’area di Homs, alcuni dei quali ex detenuti.
È a nome di questa causa che, a inizio agosto, le due attiviste siriane si sono presentate al Palazzo delle Nazioni Unite a New York. “Insieme a ‘Families For Freedom’, abbiamo lavorato per più di un anno per chiedere al Consiglio di Sicurezza di adottare una nuova risoluzione sulla questione”, spiega Amina. Eppure, a suo avviso, le belle parole di alcuni Stati membri non sono abbastanza: “Servono azioni concrete. Speriamo di essere sulla buona strada”. “Noi”, prosegue, “continueremo a dire che nessun processo di pace può prescindere dal risolvere la crisi dei prigionieri. Siamo consapevoli che la soluzione non arriverà a breve, ma continueremo a chiedere che venga garantito pieno accesso ai centri di detenzione per la Croce Rossa Internazionale, per le organizzazioni umanitarie e mediche. Le famiglie vogliono conoscere la verità”.
“Ho sempre saputo i rischi a cui andavo incontro, ma credo nella causa”, afferma poi, ricordando i giorni della prigionia e, prima ancora, delle proteste. “È questa una delle ragioni per cui sono riuscita a sopportare l’orribile esperienza della detenzione e delle torture. Sapevo anche di dover essere forte per i miei genitori e per i miei bambini, che aspettavano il mio ritorno”. Un pensiero condiviso anche da Hala, che non nasconde quanto gli ultimi anni siano stati difficili per lei. Ma quando le si chiede dove ha trovato la forza di lottare, risponde senza esitazioni: “Il coraggio me lo danno le madri, le mogli, le figlie e le sorelle siriane che, al contrario di me, non sono nella posizione di alzare la voce. Loro sono sempre state alle mie spalle, e mi hanno dato la forza”.