Ormai non ci sono più dubbi: tra “dire” e “fare”, tra le promesse dei politici e le loro azioni esiste un abisso.
Ultima conferma, il G20 che si è tenuto nei giorni scorsi ad Osaka, in Giappone. Uno degli argomenti più attesi era l’“ambiente”. Invece che informazioni su eventi di contorno, cene e regali istituzionali (tutti riportati con flemma e rigore nipponico nelle prime pagine del sito ufficiale dell’evento), molti si aspettavano una argomentata analisi dei problemi ambientali. Ormai evidente il fallimento delle politiche per ridurre le emissioni di CO2 (che continuano ad aumentare in barba alle promesse fatte durante la COP21 di Parigi – altro evento quanto mai mediatico) era tanta la trepidazione per sentire cosa avrebbero fatto i leader al G20.
Da qualche mese, ogni volta che si parlava di ambiente, la parola d’ordine era “plastica”. E anche nel documento finale del G20 di Osaka, la plastica è stata al centro delle misure per l’ambiente: “Ribadiamo che le misure per affrontare i rifiuti marini, in particolare i rifiuti di plastica marina e le microplastiche, devono essere presi a livello nazionale e internazionale da tutti i paesi in collaborazione con le parti interessate. E ancora, “siamo determinati a prendere rapidamente adeguate azioni nazionali per la prevenzione e la loro importanza riduzione degli scarichi di rifiuti in plastica e microplastiche negli oceani”. Insieme a frasi di rito tipo “migliorare l’efficienza delle risorse attraverso politiche e approcci, come l’economia circolare, la gestione sostenibile dei materiali, contributo delle 3R (riduzione, riutilizzo, riciclaggio)” e la “gestione sostenibile delle risorse”.
Non sono mancate figure idilliache contornate da parole come “comunità internazionale”, “visione globale comune” e “visione dell’oceano blu di Osaka” “che noi miriamo a ridurre l’inquinamento aggiuntivo dei rifiuti marini di plastica a zero entro il 2050”.
Scelte pienamente condivise anche dai delegati provenienti dall’Italia: il ministro dell’Ambiente italiano Sergio Costa ha detto che è necessario uscire dall’era geologica del “Plasticocene”.“È improcrastinabile definire una strategia planetaria comune con tempi certi affinché il pianeta esca definitivamente dall’età della plastica monouso”.
Belle parole. Peccato che tra queste e la realtà ci sia un oceano (di plastica) di differenza. Oggi la plastica è il terzo materiale umano più diffuso sulla Terra (con acciaio e cemento). E la produzione di plastica continua a crescere ad un ritmo vertiginoso: secondo un rapporto del WWF, la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 ad oltre 300 milioni.
Solo dieci anni fa, nel 2009, i milioni di tonnellate erano 250, all’inizio del nuovo millennio circa 200 e nel 1989 solo 100. Due anni fa sono stati prodotti 335 milioni di tonnellate (322 l’anno precedente con un aumento del 4%).
Complessivamente, dagli anni Cinquanta dello scorso secolo ad oggi sarebbero stati prodotti 8,3 miliardi di tonnellate di plastica!
Inutile dire che tra i maggiori produttori e utilizzatori ci sono proprio i paesi più industrializzati o “in via di sviluppo”: i dati UNEP indicano che più grande produttore al mondo di rifiuti plastici è la Cina, ma se si considera la produzione pro-capite il primato spetta agli Stati Uniti, seguiti da Giappone e Unione Europea. Risultati analoghi quelli dell’Associazione europea dei produttori di plastica : la produzione del 29% del totale delle materie plastiche nel 2016 fa capo alla Cina con, al secondo posto, l’industria europea (19%), seguita dai Paesi del Nord America (18%).
Se, come sempre, se sono innegabili le responsabilità dei paesi sviluppati o in via di sviluppo, dall’altro lato del pianeta, l’impatto degli “altri” paesi è decisamente minore: Africa e Medio Oriente, insieme, si fermano intorno al 7% e l’America Latina al 4%.
Plastica significa anche elevato impatto ambientale: dalla metà del secolo scorso ad oggi, sarebbero finite nell’ambiente circa 6,3 miliardi di tonnellate di plastica (quasi una tonnellata di rifiuti di palstica per ogni abitante della Terra!). Solo il 9% della plastica prodotta sarebbe stato, in qualche modo, riciclato.
Ma non basta. Ogni anno, almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari del mondo. Il Mar Mediterraneo starebbe diventando una sorta di “zuppa” di plastica come ricorda uno studio di studiosi del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche apparso su “Nature Scientific Reports”. Secondo i ricercatori, continuando di questo passo, nel 2025 (ovvero ben prima della scadenza che si sono dati i leader del G20, tra una specialità culinaria giapponese a base di pesce e un intrattenimento) ci sarà una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesci. E nel 2050, negli oceani, sarà più la plastica che i pesci.
Una situazione grave che richiederebbe interenventi risoluti. Invece, come spiega un altro rapporto dell’UNEP (che ha analizzato leggi e normative adottate dai singoli paesi per regolare la produzione, la vendita, l’uso e lo smaltimento delle materie plastiche monouso) pare che dello smaltimento della plastica ai paesi del mondo interessi poco. Molto poco. “Sacchetti di plastica, articoli monouso e microsfere rappresentano le tre importanti fonti di inquinamento”. Se da un lato, i primi sono regolamentati in poco più della metà dei paesi del pianeta (127 su 192), degli altri prodotti e dell’inquinamento che producono sembra non importare molto a chi parla di ambiente tra una cena di gala e l’altra. Per le microsfere di plastica (particelle di dimensione inferiore o uguale a 5 mm, aggiunte intenzionalmente ad alcuni prodotti di consumo come creme, dentifrici, prodotti per la pulizia, toner per stampanti, applicazioni medicali etc., e in diversi processi industriali come mezzi abrasivi) esisterebbero restrizioni solo in 8 paesi su 192 (tra cui Canada, la Francia, l’Italia e Stati Uniti d’America) e in altri 4 Paesi (Belgio, Brasile, India e Irlanda) esistono proposte di legge nazionali. Stessa cosa per le famose plastiche monouso (ormai i giornali non parlano d’altro): secondo l’UNEP, solo in 27 Paesi esisterebbe un divieto sulla produzione, distribuzione, uso o vendita e importazione delle plastiche monouso. Se a questo si aggiunge che alcuni divieti non si applicano a tutti i prodotti plastici usa e getta, è facile comprendere come mai anche le poche misure adottate finora non sono servite a nulla.
Solo in 22 Paesi il divieto riguarda prodotti specifici o solo polimeri specifici, come il polistirolo, mentre in altri casi sono solo gli utilizzi a essere colpiti, per esempio, solo le stoviglie o i contenitori da asporto. Solo due poi sono i Paesi che hanno stabilito restrizioni a livello di produzione.
La verità è che, nel mondo, la produzione di plastica continua a crescere. Dietro questo boom della plastica c’è certamente l’industria fossile e in particolare quella dello shale gas statunitense. Diventato poco conveniente a causa dei bassi prezzi del petrolio imposti dall’OPEC, la produzione di plastica è diventata essenziale per l’industria petrolifera di molti paesi, prima fra tutte quella a stelle e strisce. Secondo gli esperti del Center for International Environmental Law questa sorta di interdipendenza sarà alla base della prossima “ondata” di imballaggi non biodegradabili. Negli Usa, la rivoluzione del petrolio e gas di scisto ha avuto come conseguenza quello di convogliare enormi investimenti miliardari nella plastica. Per questo motivo, nonostante la criticità dal punto di vista ambientale, la produzione di plastica mondiale continua a crescere. Secondo alcune stime tutti i paesi del mondo saranno costretti a gestire, quantità di rifiuti polimerici sempre più consistenti almeno per i prossimi 10 anni. “Poiché la produzione di combustibili fossili è altamente localizzata in aree specifiche, anche la fabbricazione di materie plastiche si concentra in specifiche regioni, in particolare nella costa del Golfo degli Stati Uniti”, si legge nel rapporto del Centro in un recente rapporto investigativo, intitolato Fueling Plastics.
Altro dato che la dice lunga sulla volontà dei govenri di salvare l’ambiente e “ridurre” l’uso della plastica, sono i finanziamenti concessi da molti paesi per la creazione di stabilimenti per la produzione di plastiche di vario tipo: solo negli USA, dal 2010 ad oggi, sono stati concessi aiuti per oltre 180 miliardi di dollari per nuove strutture di “cracking” (processo di scissione delle lunghe catene di molecole del petrolio in catene più piccole) che produrranno i monomeri plastici. Chi si aspetta che questi impiant verranno chiusi dopo le cena dei giorni scorsi pecca di ingenuità (almeno). Ma non basta, la produzione Stelle e strisce pare stia incoraggiando ulteriori investimenti in Europa e in altri mercati, che potrebbero far aumentare la capacità di fabbricazione di materie plastiche a livello mondiale di un terzo. Esiste una relazione profonda e pervasiva tra le compagnie petrolifere e del gas e le materie plastiche” ha dichiarato Carroll Muffett, presidente del Center for International Environmental Law. “Potremmo essere bloccati in decenni di produzione di plastica espansa proprio nel momento in cui il mondo si sta rendendo conto che dovremmo usarla molto meno”.
Davanti a questi dati, sentir parlare di “plastica” e “ambiente” al G20 di Osaka è semplicemente risibile. Parole e promesse che rimandano agli anni passati e alle promesse per ridurre le emissioni di CO2 (da Kyoto a Parigi e oltre): un modo per far credere alla gente comune che ci si sta prendendo cura dei problemi di tutti e i governi hanno a cuore la salute e lo “sviluppo sostenibile” del pianeta. Ma quando si guardano i “numeri”, l’unica cosa che sembra essere destinata a crescere sono i fatturati delle grandi industrie produttrici di palstica che, incuranti dei danni che i loro prodotti provocano all’ambiente e alla salute delle persone, continueranno , a produrre miliardi di tonnellate di plastica ancora per molti anni.