
“Mani Rosse” che si alzano tutti i giovedì a Roma dinanzi al Viminale per ricordare le migliaia di migranti che muoiono nel Mediterraneo dopo aver abbandonato i loro Paesi per cercare libertà, dignità e migliori condizioni di vita. Senza nome e senza tomba in terra, sepolti in mare.
“Tutti noi siamo frutto degli spostamenti”, si rammarica Gaia Pallottino, membro del gruppo umanitario che “senza slogan e senza cartelli, silenziosamente” da luglio del 2018, alzando le mani tinte di rosso, protesta contro le politiche governative che rendono “sempre più vulnerabili le persone immigrate e rifugiate”.
Pochi giorni fa, Gaia e il suo gruppo erano tra le 500 persone che nella chiesa di Sant’ Ignazio di Loyola hanno partecipato, con grande commozione, al “Mediterraneo Requiem in memoria delle vittime del mare”, quando la dolcissima musica di Gabriel Fauré ha riproposto la sua “ninna nanna della morte”.
L’evento commemorativo, organizzato dal Comitato Nazionale Fondazione Lirico Sinfoniche e il Teatro Baretti di Torino, ha offerto “l’opportunità di riunirsi e riflettere sulla tragedia dei migranti che sono morti nei nostri mari” affermano i responsabili del concerto, tra i quali la ONG Emergy. “Più di 20.000 persone sono morte dall’ inizio dell’esodo verso l’Italia e l’Europa”, spiegano e sottolineano che “la cultura, l’arte e la musica non devono esistere al di fuori della realtà”.
Brani di scrittori e poeti – tra questi Ungaretti e Bob Dylan – hanno fatto da cornice al Requiem di Fauré.
Desiderio di memoria e di protesta, aggiungono i membri di “Mani Rosse” e di “Verità e Giustizia per i Nuovi Scomparsi”, due gruppi voluti da Enrico Calamai, ex viceconsole italiano in Argentina nei tragici anni ’70 del secolo scorso.
“In Argentina, le Mamme e le Nonne di Piazza di Maggio, dal 1976 girano tutti i giovedì, alle 14.30, chiedendo Verità e Giustizia per i 30.000 desaparecidos durante l’ultima dittatura militare, tra i quali Franca Jarach, 18 anni, italiana, la cui mamma Vera, ebrea, era arrivata da piccola a Buenos Aires dopo le leggi razziali di Mussolini”, ricorda Calamai.
“La Schindler di Buenos Aires” trova similitudini tra la politica delle dittature sudamericane di ’40 anni fa e le ombre dell’oggi europeo e, in particolare, italiano.
“Mani Rosse, insanguinate, per dare visibilità a una tragedia dell’oggi. Perchè vogliamo evitare una strage di gente che proviene dall’ Africa e dal Medio Oriente in fuga per la vita e che viene bloccata attraverso il meccanismo dell’ esternalizzazione delle frontiere. Li blocchiamo prima che arrivino alla percettibilità ed alla visibilità. Facciamo in modo che scompaiano, e sacrifichiamo migliaia di vite perchè riteniamo destabilizzante e pericoloso l’arrivo dei migranti che sono i nuovi sovversivi cosi come lo erano i giovani oppositori alle dittature, sequestrati in America Latina negli anni ‘70”, afferma Calamai.
“I familiari dei migranti scomparsi nel Mediterraneo, nel deserto o in terra europea si sono conosciuti cercando i loro figli, andando a fare denuncia, e poi hanno deciso di agire insieme”, proprio come è accaduto a Buenos Aires, dove anche il fiume locale, il Rio de la Plata, è stato “il destino finale” di molte persone sequestrate, torturate e assassinate dalla dittatura civico-militare.
Calamai, che rischiando la sua carriera diplomatica ha salvato a Buenos Aires molti discendenti di italiani perseguitati dai militari, ora accompagna la lotta dei familiari dei Nuovi Scomparsi.
“Per i migranti, le barriere fisiche sono state rimpiazzate da ostacoli ‘politici’”, dice Calamai. “È una strategia eliminazionista che nella storia moderna è stata reiterata molte volte”, riflette.
Il “filo rosso” tra il Sudamerica di Pinochet e Videla e l’Europa di oggi, è il piano sistematico e massiccio di eliminazione delle persone. Tutto nell’ ombra, tutto nascosto, anche durante il Mondiale di Calcio del ’78, tanto voluto e celebrato dalla dittatura, che ha festeggiato la “vittoria” della Selezione locale nel grande stadio mundialista, a 500 metri del campo di sequestro della Escuela de Mecanica de la Armada (ESMA), dove mentre Videla gridava e applaudiva alle reti, i sequestrati soffrivano tortura e morte.
“Noi vogliamo rendere visibile il profondo dissenso dalle politiche governative, connotate da chiusura e disprezzo nei confronti di migranti ed esuli”, afferma Gaia.
Le “Mani Rosse” sostengono che “tali politiche associate a un’opera quotidiana di propaganda razzista, non fanno che alimentare e legittimare xenofobia e intolleranza”.
“In Europa e in Italia siamo a confronto con una forma di fascismo”, aggiunge Mauro Zanella, membro del gruppo.
“L’ostilità verso chi cerca di salvare vite umane e difenderne i diritti garantiti dalla Costituzione italiana e da convenzioni internazionali rende ancora più buio il presente”, dice Zanella e ricorda indignato l’affermazione di Giorgia Meloni : la “Sea Watch”, con 42 persone a bordo, “deve essere sequestrata, l’equipaggio deve essere arrestato, gli immigranti, che sono a bordo, devono essere fatti sbarcare e rimpatriati immediatamente, e la nave deve essere affondata”.
“Tutti sanno ma fanno finta di non sapere, come accadeva in Italia con gli ebrei all’ epoca del fascismo e anche in Argentina dei militari. Noi di Mani Rosse vogliamo manifestare la nostra angoscia, il nostro fastidio assumendo l’impegno di sfilare, di esprimere ogni settimana il nostro dolore. La continuità e’ importante!”, pensa Gaia e sottolinea una situazione paradossale: “l’economia italiana ha bisogno dei migranti , ma questa realtà si nasconde, cosi come viene rimossa la storia di noi migranti, accolti negli Stati Uniti, nel Sudamerica, in altri Paesi dell’Europa, dove ci siamo integrati e abbiamo avuto tanti dolori ma anche tanti successi”.
“I miei, i Pallottino più poveri della Basilicata, sono arrivati a Boston, dove una mia cugina, Susanna Vitagliano, nipote dei migranti, e’ stata giudice della Corte Suprema”, racconta.
Le storie non mancano. “Giulio Frondizi, mio nonno, è partito da Gubbio nei primi anni del secolo scorso. Era sposato e aveva tre figli nati in Italia. In Argentina ha lavorato sodo e ha fatto altri otto figli, tra i quali mio padre, Silvio, avvocato difensore dei Diritti Umani. Silvio è stato assassinato nel 1974 dall’organizzazione paramilitare Alianza Anticomunista Argentina, la nera Triplice A”, spiega Julio, che dopo la tragedia vive a Roma.
“Uno dei fratelli di mio padre, Arturo Frondizi, è stato uno dei più noti presidenti dell’Argentina, insediato nel 1958 e rovesciato da un colpo militare nel 1962. E un’altro zio, Risieri Frondizi, filosofo e antropologo, rettore dell’ Università di Tucuman e anche della prestigiosa Università di Buenos Aires, nel 1966, dopo la Noche de los bastoneslargos dei militari contro l’Università, lasciò l’Argentina per andare a lavorare negli Stati Uniti, dove in precedenza aveva studiato e si era fatto conoscere per i suoi meriti”.
Julio oggi pensionato in Italia, parla chiaro: “Sono arrivato a Roma nel dicembre del ’75 e ho vissuto senza documenti, da clandestino per ben due anni. Sono stato accolto da gente semplice, comune, della strada. Un funzionario del Comune di Roma, uomo di destra, guardando miei documenti, mi ha aiutato ad ottenere la cittadinanza”, dal momento che io ero nipote di un italiano.
L’elenco è lungo.
Anch’io, italiana “dal momento della nascita” come afferma la sentenza di cittadinanza per via materna, dal 79 al 81 sono stata una lavoratrice illegale a Roma, grazie al generoso appoggio dell’agenzia Inter Press Service (IPS) , del suo direttore Roberto Savio e in particolare dal suo capo di redazione Pablo Piacentini, anche lui italo-argentino perseguitato dalla AAA.
Per concludere basta un nome che non ha bisogno di presentazione, Jorge Mario Bergoglio, oggi papa Francesco.
Tra i migranti che oggi sono respinti a Lampedusa, quanti potrebbero diventare ricercatori, professori, giudici, missionari… quindi brava gente di lavoro? Quanti potrebbero essere assassinati sotto un regime dittatoriale o far parte di un interminabile elenco di scomparsi?
Siamo tutti nella stessa nave in cerca di pace. È il momento di navigare insieme e di non essere indifferenti.