Articolo tratto dal post pubblicato sul profilo Facebook di Giulia Pozzi
Sono stata in dubbio fino all’ultimo se pubblicare o meno questa foto e se scrivere o meno queste righe. I motivi sono due: il più importante riguarda la natura straziante dell’immagine, e il rispetto dovuto a quel padre e a quella bambina di cui sono ritratti i corpi senza vita. Persone che meritano di essere piante innanzitutto come esseri umani, prima ancora che come simbolo di una crisi umanitaria, politica e sociale che travalica il loro dramma. Il secondo, lo ammetto, è che sono consapevole di espormi a potenziali critiche, accuse di strumentalizzazione e di buonismo, di essere radical chic, globalista e capitalista e chi più ne ha più ne metta. Ho deciso, infine, di farlo, perché questa immagine è una testimonianza di verità, un memento di vita e di morte, che restituisce la realtà, o almeno una faccia – la più terribile – delle migrazioni. Una faccia che a noi europei dovrebbe essere molto familiare. Foto come questa hanno un enorme potere: annullano il rovesciamento semantico attuato da chi, da un lato all’altro dell’Oceano, ha abilmente trasformato chi fugge da povertà e violenza in “invasori”, e li ha descritti in blocco come “criminali, trafficanti, stupratori”. Questa immagine ripristina l’umanità nuda e cruda, ed è la negazione stessa di ogni retorica.
Óscar Alberto Martínez Ramírez e sua figlia di 23 mesi, Valeria, sono stati vinti dalla forza del Rio Grande mentre cercavano di attraversare la frontiera tra Messico e Stati Uniti. In fuga da El Salvador insieme alla moglie di Óscar e madre della piccola, erano arrivati nella città di confine di Matamoros, nella speranza di poter ottenere asilo negli Stati Uniti. Ma l’ufficio immigrazione era chiuso fino a lunedì, con una lunga fila di persone davanti a loro ad attendere il proprio turno. E lì, al momento di tornare indietro, nell’attimo in cui speranza e disperazione si confondono, hanno preso la via più rischiosa, che si è rivelata fatale.
Una storia che sta scuotendo l’America, sull’onda della quale i democratici hanno approvato alla Camera un piano da 4,5 miliardi di dollari per rispondere alla crisi umanitaria al confine meridionale, probabilmente destinato a infrangersi contro il veto della Casa Bianca. Il tutto, a poche ore dalle dimissioni del capo della US Customs and Borders Protection, dopo che le condizioni terribili in cui vivono i minori alla frontiera sono state svelate. Qualche giorno prima, Alexandria Ocasio-Cortez aveva parlato di “campi di concentramento”.
Come non pensare, guardando questa foto, a quella di un altro bimbo, ritratto senza vita sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia? Il suo nome era Aylan Kurdi, aveva tre anni, e l’immagine del suo corpicino delicatamente posato sulla sabbia era stata colta dall’obbiettivo della fotoreporter Nilufer Demir.
Contro quella foto si infranse la coscienza sporca dell’Europa nel suo complesso, che, per un breve periodo, sembrò in piccola parte riscattarsi nella politica delle “porte aperte” nei confronti dei siriani annunciata dalla Germania di Angela Merkel e nella disponibilità del premier britannico David Cameron ad accogliere 4000 rifugiati all’anno fino al 2020. Fu uno specchietto per le allodole. La verità è che nulla è mai cambiato davvero: il sistema di quote e relocation è fallito miseramente; il regolamento di Dublino non è mai stato modificato, perché in fondo non c’è mai stata la volontà politica di farlo; l’UE si è nascosta dietro all’impegno ipocrita a “contrastare il traffico di esseri umani”, senza preoccuparsi di lavorare all’apertura di vie legali e sicure di immigrazione alternative a quelle offerte dagli scafisti, che ad oggi, praticamente, sono le uniche disponibili. Non solo: qualche anno più tardi, avremmo affidato alla Guardia Costiera Libica, collusa con i trafficanti stessi, il compito di riportare i migranti in un Paese in guerra, avremmo lasciato degli esseri umani in mezzo al mare per giorni in nome di un tragicomico braccio di ferro con l’Europa, avremmo iniziato a criminalizzare le navi che salvano vite in mare, avremmo confuso due piani che dovrebbero rimanere ben separati: da una parte, il legittimo dibattito sull’equa ripartizione delle responsabilità in Europa, dall’altro il dovere, mai abdicabile, di salvare chi rischia la propria vita in mare e di accogliere chi fugge da guerra e persecuzione.
Dov’è finito il corpo di Aylan, oggi? Dove finiranno, domani, quelli di Óscar e Valeria?