A una novantina di chilometri a sud di Londra, nella contea di East Sussex, Eastbourne è una cittadina di mare con troppi palazzoni, incapace di competere seriamente con Brighton, a soli 31 chilometri a ovest. Si difende con eventi congressuali e incontri di prestigio. Notevole, l’anno scorso, il campionato di English Bridge Union.
Mezzo secolo fa a Eastbourne, si tenne un congresso dell’Internazionale Socialista passato alla storia non tanto per il dibattito o il documento conclusivo, quanto per l’elevato numero di personalità che vi presero parte. All’epoca il socialismo democratico rappresentava un’opzione molto importante della politica internazionale, avendo contribuito in prima linea a far vincere all’occidente riformista le cinque grandi battaglie che definirono il mondo per mezzo secolo, dagli anni ’40 all’inizio dei ’90 contro: nazi-fascismo, comunismo, povertà e arretratezza sociale, autoritarismo in ogni sua espressione (anche culturale e religiosa), colonialismo e post colonialismo.
Dal 17 al 21 giugno 1969, in quella Rimini britannica, leader come il primo ministro Harold Wilson, padrone di casa, Golda Meir primo ministro israeliano, Olof Palme allora ministro svedese dell’Istruzione, Willy Brandt cancelliere tedesco dall’ottobre di quello stesso anno, e il patriarca del socialismo italiano e ministro degli esteri italiano Pietro Nenni, dibatterono le sorti del mondo nel segno dell’espansione delle riforme socio-economiche e della democrazia.
Lo fecero in un contesto internazionale molto particolare, in un anno che, già nella sua prima metà, aveva espresso fatti significativi.
L’occidente, che da un quinquennio ribolliva dei sacri furori giovanili rappresentati da Mario Savio a Berkeley nel 1964, esplosi in Europa nel 1968 con il “maggio” francese di Cohn Ben Dit e il “caldo semestre” tedesco di Rudi Dutschke, cominciava a soffrire le degenerazioni della contestazione, prona alla violenza anarcoide e prossima a farsi inghiottire dal buco nero del terrorismo: Raf tedesca e Br italiane erano in gestazione e si sarebbero ufficialmente costituite l’anno dopo, nel 1970.
A fine aprile il presidente francese Charles De Gaulle, fondatore e padre padrone della Cinquième, aveva perso il referendum su regionalizzazione e riforma del senato, e si era di conseguenza dimesso, gettando i nostri cugini nel caos istituzionale e aprendo ai britannici di Wilson e Heath la porta dell’Europa comunitaria.
Nonostante l’invasione sovietica della Cecoslovacchia dell’agosto dell’anno precedente, Washington e Mosca proprio nel 1969 avviano la prima sessione dei colloqui per la riduzione delle armi strategiche, Salt, i cui accordi saranno firmati nel 1972. L’accennata elezione al cancellierato di Brandt, latore della politica di Ostpolitik o apertura all’oriente europeo, avrebbe messo presto un’altra fondamentale freccia nell’arco della distensione tra ovest ed est, gettando le premesse per la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, aperta poi ad Helsinki nel 1973. A contribuire ad ammorbidire i sovietici e a renderli realisti di fronte all’avanzamento dell’occidente, un altro grande evento del 1969, l’allunaggio di Apollo 11 in luglio.
Quando ad Eastbourne, l’allora segretario generale dell’IS, Albert Carthy, introduce il dibattito, tra i temi caldi c’è il rapporto est ovest e il futuro di un’Europa vaso di coccio fra i due grandi e armati in contesa. Pietro Nenni, che aveva come consigliere Altiero Spinelli, padre nobile dell’europeismo e coautore del manifesto di Ventotene, si lascia andare a un ragionamento di grande respiro profetico, da leggere anche dentro la sua scelta di multipolarismo sistemico. Si tenga conto che Nenni è leader che, in quell’ambiente, viene guardato come si guarda la storia: ha attraversato tutto il novecento da combattente per la libertà, non solo contro Mussolini ma contro il fellone Francisco Franco nella guerra di Spagna. Può permettersi il tono aulico che peraltro gli era congeniale.
Oggi basterebbe una crisi monetaria o economica o diplomatica di medie dimensioni per suscitare nei nostri paesi sussulti nazionalistici che farebbero crollare l’attuale troppo debole edifizio europeo. E poiché la politica, come la natura, ha orrore del vuoto, ove l’impresa europea fallisse sarebbero i vani ed ormai impossibili esclusivismi nazionali ad essere restaurati, ma, dopo una fase di tensioni e di disordini sarebbero le soluzioni autoritarie a riempire in un modo o nell’altro quel vuoto con il loro ordine”.
Le parole sono di un’attualità che dà tristezza, non tanto nel rapportarle al montare dei nazional-populismi in molti paesi dell’emisfero occidentale, quanto per il macero al quale si vanno destinando intelligenze che pure la storia la conoscono e che in altre epoche non si sono certo opposte ad argomenti e posizioni come quella di Nenni qui richiamata.
Si pensi alle fanfaluche enunciate venerdì nella relazione del presidente Consob Paolo Savona, già ministro degli Affari Europei in questo governo, sul fatto che l’Italia potrebbe legittimamente raggiungere un debito pubblico doppio del suo prodotto interno lordo, in barba agli impegni sottoscritti in sede EU su euro e Fiscal Compact. Già oggi ridotta a contare praticamente zero in sede europea, cosa conterebbe un’Italia con il macigno di un simile debito al collo? La vicenda Grecia non ha insegnato nulla, e viene da chiedersi con quale logica si possa pensare che un governo della repubblica abbia il diritto di disporre dei sudatissimi risparmi di cittadini e lavoratori per finanziare senza limiti i propri capricci populisti e sovranisti.
Il ragionamento del presidente Consob si inscrive nel filone antieuropeista e antitedesco che, un paio di anni fa, trovò un buon interprete in Andrea Del Monaco, autore di “Sud colonia tedesca” pubblicato da Ediesse, editore vicino alla Cgil. Il titolo è tutto un programma: a senso unico, teorizza lo sfruttamento del nord comunitario perpetrato attraverso la finanza europea stupida e ingiusta. L’”austerità” imposta da Berlino, con la connivenza di Bruxelles, all’Italia, sarebbe la prova che la tesi è corretta.
Due osservazioni. Nel lontano 1981 scrissi un libro, Lo sviluppo distratto che, dati alla mano, spiegava come il ritardo del nostro mezzogiorno dipendesse da responsabilità tutte italiane, evidenziate anche dal “distratto” utilizzo dei fondi messi a disposizione dalle istituzioni di Bruxelles, o “distratti” nei rivoli della corruzione politica e amministrativa e delle attività criminali. Paesi ben più poveri dell’Italia come Irlanda e Portogallo, regioni ben più povere del mezzogiorno, come Estremadura spagnola, Alentejo portoghese e un buon numero di territori dell’Europa centro orientale, hanno fatto buon uso di quei fondi, hanno compresso il debito andando talvolta persino in attivo (v. il Portogallo con governo socialista), con una ricetta molto semplice: niente mugugno (nella repubblica di Genova gli armatori pagavano di più chi accettava di remare senza mugugno in quanto più produttivo per definizione), amministrazione pubblica amica di chi lavora e investe, istruzione tecnologia e produttività sempre in crescita.
In quanto all’”austerità”, la parola circola nel gergo di politica economica italiana ben prima di Maastricht ed euro. Ugo La Malfa e Luigi Berlinguer, prima di loro Luigi Einaudi, con altri personaggi della nostra politica davvero patriottici e interessati al futuro dello stato e della gente, la raccomandarono quando inflazione e debito minacciavano di togliere al paese il futuro al quale avevano diritto. Si tratta di buona finanza e buona amministrazione: questioni interne con le quali dovremmo fare comunque i conti, anche nella diabolica ipotesi di uscita dall’Unione Europea.
In quanto alla presunta austerità imposta da Bruxelles nel presente decennio, basterebbe ricordare che nel recente quinquennio la Commissione ha allentato parecchi vincoli di compatibilità finanziarie per consentire la ripresa economica: nel nostro paese tra il 2013 e il 2014, numeri alla mano, la politica di austerità, Bruxelles consenziente, è stata accantonata. L’atteggiamento ideologico nazionalista e populista può spiegare l’ostinazione con la quale si sbandierano concetti che non corrispondono alla verità delle cose. Poco interessa che quei concetti vengano dalla cosiddetta destra o dalla cosiddetta sinistra: nei quasi settant’anni di vicenda comunitaria e Ue, le minoranze o maggioranze contrarie alla costruzione della Federazione Europea e alle istituzioni sovranazionali in grado di generarla, si sono costituite sempre attraverso la saldatura, sul nazionalismo e l’etno-protezionismo, di destre fortemente conservatrici e sinistre veteromarxiste.
Nel discorso a Eastbourne, Nenni, che in agosto avrebbe abbandonato le responsabilità di governo, anticipava quanto, qualche decennio dopo, in occasione dell’ultimo e breve intervento al Parlamento Europeo di Strasburgo il 17 gennaio 1995, avrebbe spiegato un altro grande saggio del socialismo europeo, François Mitterrand. Dopo aver richiamato alla memoria i disastri delle due grandi guerre europee del novecento e fatto appello ai deputati perché si impegnassero a costruire l’Europa unita, dichiarava: “Le nationalisme c’est la guerre!”.
Sia Nenni che Mitterrand agivano in coerenza con i precursori, i socialisti Aristide Briand e Filippo Turati. Briand, Nobel per la pace e autore, con il segretario di stato statunitense Frank Billings Kellogg, anche lui Nobel per la pace, del patto universale per la rinuncia alla guerra come strumento di politica internazionale, ricevette nel 1929 alla Lega delle Nazioni (le allora Nazioni Unite) l’incarico di preparare il memorandum sulla costituzione dell’Unione Federale Europea.
Turati, già nel 1896 al primo discorso da deputato, aveva chiesto gli Stati Uniti d’Europa “i quali moltiplichino … le varie potenzialità dei popoli senza cancellarne le singole fisionomie”.
Quando il fascismo lo costringerà all’esilio, nello stesso 1929 di Briand e 15 anni prima del manifesto di Ventotene, renderà esplicito il nesso tra unità europea e sconfitta del fascismo, denunciando l’anti Europa come cancro abominevole: “La federazione europea è una questione di vita o di morte per noi. Il problema degli Stati Uniti d’Europa si confonde col problema della sconfitta e della distruzione del fascismo. Non vi sarà mai una Europa unita fintantoché l’Europa conserverà nel suo seno quel cancro abominevole che, per sua confessione, è e si vanta di essere l’anti Europa”.
Sempre Turati collegava quel progetto alla necessità di salvaguardare il libero scambio, “il clima più propizio per lo sviluppo generale dell’industria e della ricchezza di tutte le Nazioni”.
Per i tempi nei quali lo pronuncia, il ragionamento di Turati non era per niente ovvio. Neppure la posizione di Nenni ad Eastbourne risultava scontata, visto che nel Congresso si espressero anche leader anti-mercato e protezionisti, così come esponenti di movimenti di liberazione tentati dal nazionalismo e anti-europeisti della più bell’acqua a cominciare da delegati del Labour britannico, il partito ospite. Ignoravano, forse, che lo stesso Pietro Nenni, aveva dovuto compiere un lungo itinerario prima di approdare a quelle posizioni di convinto europeismo. E che, in gioventù, aveva iniziato proprio dal nazionalismo repubblicano, nazionalista e interventista (prima di essere socialista fu repubblicano, dal 1909 al 1921).
Mezzo secolo dopo, i partiti per e contro gli Stati Uniti d’Europa sono ancora lì a guardarsi in cagnesco. Il leader laburista Jeremy Corbyn, ircocervo che esprime ambedue le posizioni e che fra poco farà una campagna elettorale (sembra) pro-Europe, si faccia passare gli atti di Eastbourne. Avrà molto da apprendere.