Marzo 2019, Italia. Ogni mattina una donna si sveglia e sa che dovrà essere più veloce. Più veloce a far bene e meglio per arrivare a fine giornata e ritagliarsi del tempo per sé, più veloce a laurearsi per ambire a una carriera che non subisca i contraccolpi di una “possibile gravidanza” e dimostrare di valere tanto quanto la controparte maschile, più veloce a ribattere all’ennesimo “apprezzamento” di chi non la giudica strettamente per il proprio operato, per non cadere nell’equivoco. Ma anche meno ingenua e più smaliziata, più flessibile e meno acida. Sorridente, ma non troppo. Non per strada almeno. Meno che mai in metropolitana, quando fuori s’è fatta una certa. Femminile, sicuramente. Ma occhio a scollature e minigonne, meglio riservarle a certe occasioni. Come la festa delle donne, perché no? Ah, no. Non è una festa. Ma la commemorazione di un tragico evento. Che poi, da “vittime” a “puttane” è un drink.
Se ha una qualche ambizione che non contempli una vita da angelo del focolare, in contrasto con la “missione sociale per il futuro e la sopravvivenza della nazione”, allora dev’essere velocissima per schivare cartelli che la vorrebbero “meno marcatamente autodeterminata” e votata al “ruolo naturale” per cui è stata concepita dalla notte dei tempi. Ha idee in contrasto con quelle espresse da uno dei partiti di maggioranza al governo? Solidarizza con gay e migranti? Occhio a dichiararlo pubblicamente o a lasciarne traccia sui social: finire in pasto alla rete è un attimo, può persino avere l’onore di essere esposta alla gogna dal ministro dell’Interno in persona, o meglio, dal suo profilo Facebook.
“8 marzo: chi offende la dignità delle donne?” si chiede la Lega per Salvini Premier di Crotone e in tutta risposta affigge un elenco di inqualificabili CHI contro cui puntare il dito. Tra questi c’è “chi sostiene una cultura e promuove iniziative favorevoli alla vergognosa e ignominiosa pratica dell’utero in affitto”; “chi sostiene una cultura politica che rivendica una sempre più marcata e assoluta autodeterminazione della donna che suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell’uomo”; “chi contrasta culturalmente il ruolo naturale della donna volto alla promozione e al sostegno della vita e della famiglia”; “chi strumentalizza la donna, come anche i migranti e i gay, per finalità meramente ideologiche al solo scopo di fare la ‘rivoluzione’ e rendere sempre più fluida e priva di punti di riferimento certi la società”. Convinti che la donna abbia “una grande missione sociale da compiere per il futuro e la sopravvivenza della nostra nazione”, i leghisti calabresi si schierano contro leggi e atteggiamenti che “ne inficiano il suo infungibile ruolo”.
Basterebbe tanto per pensare di essere finiti nel marzo 1919. Ma no, non è abbastanza. Perché per Forza nuova, che ormai da mesi tappezza grandi e piccole città dei suoi slogan, “L’Italia ha bisogno di figli, non di unioni gay e immigrati” e l’equazione pare la stessa dei tempi del Duce: per sottrarre il Paese a degrado e regressione, servono donne salvatrici della Patria pronte a sfornare nuovi virgulti di stirpe italica. Chiunque non contribuisca a questo scopo, chiunque distolga, se non addirittura dissuada da questo primario obiettivo deve sparire.
È l’Italia che vorrebbero, certo, ma che per fortuna non c’è. Non più. O per lo meno non ancora. Dal ddl Pillon a sentenze choc come quella sul femminicidio di Bologna, il passo potrebbe essere pericolosamente breve.
Anche contro Pillon e i femminicidi, le donne scendono in piazza in questo 8 marzo. Contestano il disegno di legge partorito dal ministro antiabortista e antidivorzista del Carroccio, che definiscono “un ritorno al Medioevo del diritto di famiglia” perché rende particolarmente difficile a molte donne, madri e minori tutelarsi da situazioni di violenza domestica e ne minaccia la libertà di scelta in caso di separazione . Contestano la decisione della corte d’Appello di Bologna che ha quasi dimezzato (da 30 a 16 anni di carcere) la pena per l’uomo che ha strangolato la compagna rea di volerlo lasciare, in preda a una “tempesta emotiva” riconosciuta come attenuante: così deliberano i giudici, facendo sembrare perfettamente calzante il parallelismo con il delitto d’onore, in Italia abolito solo nel 1981 insieme al matrimonio riparatore, a 16 anni dal caso Franca Viola.
Ebbene, di femminismo – questa parola così sgualcita, sbeffeggiata, derisa – c’è ancora bisogno. Oggi, in particolare. I perché si sprecano. Ci vogliono femministe per chi madre vorrebbe pure diventarlo, oltre che individuo dotato di una propria finitezza, professionista rispettata, essere umano con pari dignità e diritti degli uomini. Per lottare per stesse condizioni lavorative e salariali, tutele, servizi pubblici gratuiti e accessibili, forme di sostegno alla maternità e alla paternità condivisa.
E poi, poste le condizioni perché ciò si verifichi, ci vogliono femministe per affermare – o riconfermare – il diritto di poter scegliere o non scegliere tutto questo. Per combattere ogni forma di violenza più subdola, da quella ostetrica alle molestie sul luogo di lavoro e sul web. Di più, il diritto di poter dire la propria in totale libertà, di gestire degli spazi che non siano solo quelli domestici, senza doverne temere le conseguenze. Senza dover necessariamente fare i conti con medici obiettori, capi bastardi, fidanzati gelosi in agguato sotto casa, vicepremier e scagnozzi pronti a sbatterti sulla loro bacheca per darti pasto alle bestie.