C’è chi dice che Bernie Sanders sia “troppo vecchio, troppo bianco e troppo socialista” per diventare presidente degli Stati Uniti. Eppure, l’aria che si è respirata al rally di apertura della sua campagna elettorale presso l’enorme cortile del Brooklyn College, a New York, sembra aver sconfessato l’assioma. Non sarebbe stato altrimenti scontato che, nella mattina di un sabato di inizio marzo intirizzito dalla neve, migliaia di persone, provenienti da tutto il Paese, decidessero di sfidare il gelo solo per lui, accogliendo il suo ingresso quasi fosse una rockstar. Quel che è certo è che lo staff del candidato 77enne – che negli ultimi giorni ha visto l’addio di tre dei suoi principali esperti – sta lavorando alacremente sui suoi punti deboli. E i risultati, a Brooklyn, si sono visti.
L’ha sottolineato anche Shaun King, scrittore militante che lo ha introdotto sul palco: più che un longevo frequentatore di Capitol Hill, Bernie Sanders sembra sentirsi ancora l’attivista che, il 28 agosto 1963, partecipò alla marcia su Washington per il lavoro e per la libertà a fianco di Martin Luther King, in difesa dei diritti civili ed economici degli afroamericani. Non è un caso che questo episodio della sua giovinezza sia stato rispolverato proprio in questa occasione. Nel 2016, infatti, Sanders aveva sì conquistato i cuori di molti, ma non quelli della comunità afroamericana, peraltro – era stato notato – molto poco rappresentata nei suoi spot elettorali. All’epoca, si era detto, il senatore indipendente candidato alle primarie democratiche si era focalizzato troppo sulla lotta di classe, finendo per non dare la giusta importanza alle minoranze, che infatti non l’hanno premiato.
Lezione imparata: da qui, il nuovo risalto riservato al pur già noto attivismo del giovane Sanders. Da studente dell’Università di Chicago, Bernie divenne infatti leader di movimenti per l’uguaglianza razziale e aiutò a condurre il primo sit-in in quell’Università, accampandosi con altri 32 studenti fuori dall’ufficio del Presidente per protestare contro la segregazione. Non solo: fece appassionata attività di volantinaggio per tutta la città, nonostante i tentativi della polizia di fermarlo, e fu tra gli attivisti che, schierandosi di fronte alle ruspe, cercarono di impedire l’installazione delle roulotte dove i bambini di colore venivano costretti a studiare, a causa del sovraffollamento delle scuole a loro riservate. Non accettò di desistere neppure quando la polizia, che aveva minacciato di arrestarlo, lo spostò di peso.

Una narrazione – strategica per convincere i democratici di essere tutto fuorché “troppo bianco” – a cui, nella scorsa campagna, è stato dato modesto rilievo. Come poco messa in evidenza è stata a lungo la storia della sua famiglia, che Sanders non ha mai amato mettere troppo in piazza. Ecco l’altra novità di questa nuova corsa verso la “rivoluzione”: dal palco installato nel cortile del Brooklyn College, il socialista d’America ha finalmente pronunciato il pronome “io”, ricordando di essere figlio di un ebreo polacco, scappato dal suo Paese a causa della povertà e dell’Olocausto, che in seguito sterminò tutti i suoi parenti. Ha raccontato di essere cresciuto in una famiglia della classe operaia, che ha sempre dovuto fare i conti con i centesimi, e di aver abitato in un appartamento ad affitto bloccato a pochi metri di distanza dallo stesso Brooklyn College, dove ha studiato prima di trasferirsi a Chicago. Lo ha fatto esasperando il contrasto con l’infanzia di Donald J. Trump: “Non ho avuto una madre e un padre che mi hanno dato milioni di dollari per costruire grattacieli di lusso, casino e country club”, ha arringato alla folla. E se nel 2016 aveva lanciato la sua campagna dal Vermont, stato che rappresenta come senatore, la scelta di New York, questa volta, può essere interpretata come un ritorno alle origini. Quasi a voler dimostrare che il suo “socialismo”, più che un vezzo anticonformista in netto contrasto con la tradizione a stelle e strisce, è una scelta di campo maturata in modo autentico in piena coerenza, e non in contraddizione, con la storia degli Stati Uniti d’America.

Quanto al “troppo vecchio”, quanto conta l’età anagrafica quando la propria base è composta prevalentemente di giovani? Tantissimi i ventenni accorsi al Brooklyn College per sostenerlo, qualcuno anche al suo primissimo rally. Come Liam, 23 anni, giunto appositamente a New York da Washington DC. “Penso abbia grandi possibilità di vincere le primarie questa volta: è il candidato favorito, e ha saputo orientare il dibattito nel Partito Democratico”, ha spiegato. Troppo vecchio? “Molti media mainstream sembrano incoraggiare la candidatura di Joe Biden, senza dire che ha solo un anno in meno di Sanders”. Secondo Liam, inoltre, più che all’età o al colore della pelle bisognerebbe guardare al suo programma: “Sono una persona di colore e lo supporto con convinzione. Lo preferisco a una candidata come Kamala Harris, molto accreditata perché donna e di origini afroamericane, ma che, dal mio punto di vista, non ha un buon background come Procuratore Generale della California, perché la sua azione ha sfavorito persone di colore e immigrati”. Liam non dà troppo peso neppure alla definizione di “socialista”: “Sostiene diritti che sono già realtà in Europa, come un sistema sanitario pubblico e gratuito, un’istruzione a prezzi accessibili: ed è quello che tanti americani vogliano”.
Per Rebecca, 23 anni, non è stato il primo rally di Sanders: lo aveva già visto dal vivo nel 2016 in Michigan. “Mi sento una democratica socialista, e le sue proposte sono molto vicine alla mia visione della politica”. E ha aggiunto: “Penso sia il candidato più autentico attualmente in campo”. Secondo Julie, 23 anni, “è l’unico, da diversi anni a questa parte, che ha mostrato un po’ di compassione per la classe lavoratrice: penso sia una cosa rara”. Nell’affollato campo democratico in vista delle primarie, entrambe apprezzano anche Elizabeth Warren, in effetti la candidata politicamente più simile al senatore indipendente del Vermont. “Se Sanders non fosse sceso in campo avrei votato per lei”, ha chiarito Rebecca. E per Julie, “gli altri candidati finiranno per scontrarsi con gli stessi problemi di Hillary Clinton, non penso siano in grado di convincere la base”. “Sanders è tra i pochi a poter sconfiggere Donald Trump”, ha chiosato.
Skyler, 21 anni di New York, ha dichiarato di apprezzare soprattutto la proposta di garantire una sanità gratuita per tutti: “Mi piace anche la promessa di togliere i soldi dalla politica, e di abbassare i costi delle medicine”. Potrebbe vincere? “Se la Democratic National Committee non si mette di mezzo, penso di sì”. Troppo vecchio? “No, non penso. L’importante è la proposta politica. E lui ne ha una forte”.

Sanders non piace solo ai giovani. Tracy ha 44 anni, vive a Brooklyn e ha due figli, il più grande di 14 anni e la più piccola di 11. In occasione del rally newyorkese, entrambi hanno sfidato il freddo per accompagnare la madre al Brooklyn College. “Amiamo Bernie, alle primarie del 2016 l’ho votato, ma poi ha perso e alle presidenziali ho scelto di sostenere il candidato dei verdi, Jill Stein”, ha raccontato Tracy. “Sono una educatrice, e soprattutto quando si parla di istruzione la mia impressione è che i Democratici siano troppo compattati al centro. Sono d’accordo con Sanders: tutti devono potersi permettere di ricevere una formazione di qualità”. Inoltre, ha aggiunto, “è una persona che riesce a connettere con la gente, e lo sento più autentico di chiunque altro”. A suo avviso, “nonostante in passato i media lo abbiano sottovalutato”, il fatto stesso che il senatore sia riuscito a raccogliere più di 10 milioni di dollari in meno di una settimana è significativo degli assi che nasconde nella manica. “Credo possa realmente vincere, sia alle primarie che alle presidenziali. Lo credo e lo spero. Soprattutto, per il futuro dei miei figli”.
