A voler approfondire i risultati (secondo i commentatori internazionali fallimentari) del vertice di Hanoi tra Donald J. Trump e Kim Jong-Un, si rimane colpiti da una doppia narrazione, fortemente contraddittoria, di quanto accaduto nelle scorse ore in Vietnam. La versione fornita dalla KCNA, la Korean Central News Agency, sembra infatti raccontare un incontro sereno, avvenuto all’insegna dell’amicizia, e soprattutto, conclusosi in un moderato successo. “I leader dei due Paesi”, si legge infatti in un articolo dedicato al tema, “hanno apprezzato molto, durante il dialogo faccia a faccia e i colloqui estesi, il fatto che un notevole progresso sia stato compiuto nello storico processo di impementazione della dichiarazione condivisa di Singapore”. Addirittura, si parla dell’apertura di “una nuova era nelle relazioni tra Corea del Nord e Stati Uniti”, di “fiducia reciproca”, di “un fondamentale punto di svolta in decenni di relazioni bilaterali caratterizzate dalla sfiducia e dall’antagonismo”, e si afferma che “i due leader hanno ascoltato le posizioni l’uno dell’altro sulle questioni da risolvere senza fallimenti, al fine di realizzare gli obiettivi congiunti specificati nella dichiarazione congiunta di Singapore e hanno discusso approfonditamente i modi per farlo”.
Un quadro del tutto diverso da quello dipinto dalla stampa internazionale, che ha invece gridato, senza mezzi termini, al “fallimento” del vertice. Fallimento che, per la verità, lo stesso presidente Trump ha cercato di ridimensionare. “Abbiamo trascorso praticamente tutto il giorno con Kim-Jong Un, che è un bravo ragazzo ed un bel tipo, e le nostre relazioni sono molto forti, ma questa volta abbiamo deciso di non portare avanti nessuna delle opzioni sul tavolo, e vedremo come andrà”, ha detto il Commander-in-Chief alla conferenza stampa finale. Eppure, ha aggiunto, “sono stati due giorni molto produttivi. Ma qualche volta bisogna abbandonare il tavolo, e questa è stata una di quelle volte”.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) March 1, 2019
In un tweet successivo, Trump ha parlato di “negoziati concreti” con Kim Jong-Un: “Noi sappiamo cosa vogliamo e loro sanno cosa dobbiamo ottenere”.
Great to be back from Vietnam, an amazing place. We had very substantive negotiations with Kim Jong Un – we know what they want and they know what we must have. Relationship very good, let’s see what happens!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) March 1, 2019
Toni tutt’altro che catastrofisti, insomma, ma che preludono a prossimi sviluppi, anche positivi, sul tema. Eppure, non c’è dubbio che, per quanto Trump abbia in tante occasioni parlato di quello che un tempo apostrofava “Rocket Man” come di un bravo ragazzo con cui è semplice andare d’accordo, l’equilibrio raggiunto sia precario. Lo ha dimostrato proprio la battuta d’arresto di Hanoi, segnale che è ancora troppo presto per cantare vittoria (come il Presidente americano, in più di qualche occasione, sembra aver fatto). Che cosa è andato storto, dunque? Trump l’ha spiegata così: se ne è andato, ha detto, perché la Corea del Nord voleva l’eliminazione dell’intero pacchetto di sanzioni in cambio di una denuclearizzazione solo parziale – una concessione, ha specificato, che gli Stati Uniti non si possono permettere –. Ma anche in questo caso esiste una seconda versione: perché in una rara conferenza stampa al termine del vertice, Ri Yong-ho, ministro degli Esteri nordcoreano, ha invece affermato che il suo Paese ha chiesto soltanto una parziale rimozione delle sanzioni.
Difficile capire che cosa accadrà ora: di certo, il vertice di Hanoi, oltre al suo termine anticipato, verrà ricordato perché per la prima volta Kim ha accettato domande dai giornalisti dei media occidentali, con David Nakamura del Post ad essere il primo a raccogliere questo onore. Ad ogni modo, per lo stesso Trump la posta in gioco è alta. Perché mentre sul fronte interno si addensano nubi oscure sulla sua presidenza, dopo la testimonianza esplosiva al Congresso di Michael Cohen, il summit sarebbe stata l’occasione per distogliere l’attenzione da tutto ciò e poter rivendicare un grande successo in campo internazionale. Al contrario, il fallimento ha dato occasione ai suoi detrattori di puntare il dito sui suoi modi diplomatici tutt’altro che “ortodossi”. Lo stesso Kim, del resto, ha più che qualcosa da perdere: perché se è vero che il nucleare è per lui l’asso nella manica per tenere a bada Stati Uniti e alleati, allo stesso tempo sogna la liberazione dalle sanzioni e un boom economico, prospettiva irraggiungibile finché la comunità internazionale non lo toglierà da dietro la lavagna.
Qualcuno, però, dal mancato accordo è rimasto addirittura rassicurato. In questo caso non stiamo parlando del Giappone, che ha sempre temuto, con la fine delle sanzioni, di restare vulnerabile agli attacchi di Pyongyang. Il giornalista Pierre Haski, di France Inter, ritiene infatti positivo il fatto che Trump abbia scelto di non accettare un accordo che avrebbe costituito sì un’ottima vetrina per lui, ma sarebbe stato indubbiamente squilibrato per gli equilibri globali. Pare che nella decisione abbia pesato molto la contrarietà di Pompeo, visto che lo stesso Presidente ha dichiarato di non poter suggellare un accordo che non piaceva “a Mike”. Un’intepretazione in qualche modo avvalorata anche dal New York Times, secondo cui il Segretario di Stato era in prima istanza ben più scettico dell’inquilino della Casa Bianca. Questa linea, alla fine, ha prevalso, seppur edulcorata nella forma e con la prospettiva di una prosecuzione del dialogo. Trump e Kim (accomunati perlomeno da una certa imprevedibilità di carattere) permettendo.