Cresciuta a pane e manga, la trentenne Giulia Sagramola si innamora dei fumetti e delle illustrazioni sin da piccolissima. Non solo creatività, Giulia capisce che esisteva una professione dietro all’illustrazione quando ha letto di Beatrix Potter alle elementari.
Nata a Fabriano, nelle Marche, una città famosa per la produzione della carta, inserita nella lista delle città creative dall’Unesco, Giulia ha studiato comunicazione visiva all’ISIA di Urbino e illustrazione all’Escola Massana di Barcellona. Da allora, lavora come illustratrice e autrice di fumetti, tiene workshop per adulti e ragazzi, sviluppa progetti personali come autoproduzioni e oggetti.
È autrice dei romanzi a fumetti, Bacio a cinque (Topipittori) e Incendi Estivi (Bao Publishing), quest’ultimo realizzato nel 2015 durante una residenza d’artista di un anno presso la Maison des Auters di Angoulême (Francia).
Le sue illustrazioni sono nelle pagine dei quotidiani e riviste, tra le più importanti, come il New Yorker, New York Times, Vice, Feltrinelli, Topipittori, Mondadori, Rolling Stone, Quirk Books, Il Castoro e altri. Insieme a Sarah Mazzetti e Cristina Spanò ha fondato Teiera, etichetta di autoproduzioni specializzata in libri collettivi a fumetti. Il progetto conta oltre i 20 volumi tra libri collettivi e fanzine, coinvolgendo artisti italiani e internazionali..
Nel corso degli anni il suo lavoro è stato premiato da Bologna Children Bookfair, American Illustration, 3×3 Picture Book Show and the Society of Illustrators. Il suo ultimo libro illustrato Sonno Gigante Sonno Piccino (Topipittori), scritto da Giusi Quarenghi, ha vinto una Merit Award al 3×3 Annual Picture Book.
Al momento Giulia Sagramola vive a Barcellona dove nel tempo libero si diverte a creare ceramiche e a spiare i cani che passeggiano nel quartiere.
“Se dovessi scegliere una città in cui ambientare una storia sceglierei di farla a Brooklyn, che è un posto che amo, oppure a Tokyo perché molti dei fumetti con cui sono cresciuta sono ambientati lì”.
Illustratrice e disegnatrice di fumetti, hai all’attivo numerose collaborazioni internazionali. Come è nata la collaborazione con il New York Times e il New Yorker e come nascono le illustrazioni per loro?
“Mi capita spesso di contattare gli art director che seguo e di cui ammiro il lavoro per mostrargli le mie illustrazioni più recenti, quando ero a New York lo scorso ottobre mi è capitato di incontrare alcuni di loro e hanno potuto vedere di persona il mio portfolio.
Le illustrazioni per una rivista nascono dal contatto dell’art director, che mi invia un brief, a volte l’articolo e le indicazioni tecniche (come formato o la data di consegna). Per il New York Times l’illustrazione va spesso fatta in giornata: lavorando dall’Europa ricevo la richiesta di un’illustrazione intorno alle 16.30/17, consegno diverse bozze di idee alle 21 e poi ho tempo fino a mezzanotte per mandare la versione definitiva in bianco e nero e a colori.
Per il New Yorker c’è più tempo, di solito alcuni giorni. Inizio leggendo più volte l’articolo o il brief che devo illustrare e se serve faccio un po’ di ricerca leggendo altri articoli online al riguardo, nel frattempo inizio a schizzare su un foglio qualunque cosa mi venga in mente e sulla base di questi ragionamenti visivi, iniziano a prendere forma le idee che proporrò all’art director”.
Qual è la differenza nella linea narrativa tra un’illustrazione e un fumetto?
“Illustrazione e fumetto sono due forme di comunicazione diverse e usano diversi linguaggi, sebbene entrambi includano la forte presenza del disegno (anche se non per forza). Per questo anche se diverse, sono linguaggi molto interconnessi. L’illustrazione rappresenta solitamente con una sola immagine un testo, un concetto o un contenuto, quindi c’è bisogno di una buona capacità di sintesi e composizione, oltre che trovare il modo più adatto per rappresentare in una sola immagine il messaggio che si vuol far passare.
Il fumetto è un linguaggio sequenziale, il disegno è in funzione del racconto in sequenza. Lo stile di disegno che si può usare per entrambi può essere il più vario possibile, io di solito lo adatto al tipo di storia o al tipo di illustrazione che sto facendo. Mi piace usare diversi registri, da cose delicate a cose più ironiche, mantenendo il mio modo di disegnare”.
Si fa avanti una generazione di giovani illustratrici donne italiane. Come vedi questa sorta di fenomeno e cosa vi accomuna?
“Lo vedo come la naturale conseguenza di un processo iniziato da diversi decenni e legato a questioni culturali che vanno aldilà dell’illustrazione e del fumetto, ovviamente sono enormemente felice. Siamo talmente tante che aldilà del genere non penso ci possa essere altro di comune a tutte a livello visivo. L’illustrazione è un ambito molto ampio che include quella per le riviste fino a quella dei i libri per bambini, ogni illustratore si è formato con gusti e interessi diversi e ha trovato il proprio spazio/nicchia all’interno della professione.
Per le autrici di fumetti, probabilmente la cosa che ci accomuna molte come generazione è il fatto che quando eravamo alle medie o al liceo, c’è stato un boom di esportazione di manga e con questi un aumento di varietà nelle tipologie di storie a fumetti rispetto a quelle proposte dalle uscite americane o europee, con storie molto diverse da quelle dei supereroi americani o del fumetto d’avventura europeo”.
Che valore ha un’illustrazione in un articolo di politica sulle pagine del New York Times?
“Sarei curiosa di conoscere il punto di vista di un lettore o dei miei art director, per me può essere quello di aggiungere un punto di vista o una chiave di lettura al testo. Illustrare etimologicamente significa “mettere in luce”, la sua funzione dovrebbe essere quella di esporre il messaggio grazie al visivo, vorrei rendere questo col mio lavoro”.
In generale il fumetto e l’illustrazione hanno anche un forte valore politico per te?
“Per me si, soprattutto nelle mie storie, anche quando non lo dichiaro o quando faccio storie con soggetti innocui tipo cagnolini o cose ironiche che di politico sembrano non avere niente. Come percepisco la società, le interazioni umane, i valori su cui cerco di basare la mia vita, tutte queste cose entrano inevitabilmente dentro il mio lavoro e le scelte che faccio quando scelgo come illustrare un’immagine o raccontare una storia, hanno inevitabilmente una connotazione politica”.
Fumettisti e illustratori che hanno influenzato e ispirato la tua formazione?
“Ho una lista infinita di artisti, film, canzoni, fumetti e libri che mi hanno influenzato, è difficile sceglierne solo alcuni come punto di riferimento. Sicuramente il mio modo di disegnare è stato molto influenzato dallo stile dei fumetti manga, che ho letto moltissimo da ragazzina, per poi mischiarsi a quelli francesi e al fumetto indie nord-americano. Amo questi autori di fumetti: Sammy Harkam, Jillian Tamaki, Camille Jourdy, Manuele Fior, Daniel Clowes, Aude Picault, Kate Beaton, Kerascoet, Rumiko Takahashi, Oyvind Torseter e molti altri. Trovo anche molta inspirazione nelle cose matte che trovo su internet, tipo vecchie stampe scientifiche, mappe, pittura medievale, grafica sovietica e polacca, la Bauhaus, Fortunato Depero e il futurismo italiano, i tappeti di Gunta Stölzl, il lavoro di Josef e Anni Albers. Ammiro il mondo visivo di Bruno Munari, Tomi Ungerer, Maurice Sendak, André François, Saul Steinberg, Elisabeth Brozowska, Beatrix Potter, Garrett Price, Roger Duvoisin. Oltre a queste influenze, il confronto e lo scambio con i miei amici (Giorgia Marras, Sarah Mazzetti, Cristina Daura, Brahm Revel, Nicolò Pellizzon, Lucia Biagi, Eleonora Antonioni, tra i tanti) è fondamentale”.
Insieme a Cristina Spanò e Sarah Mazzetti, hai fondato l’etichetta di autoproduzioni “Teiera”. Quanto è difficile in Italia il mondo delle autoproduzioni in un settore come il tuo?
“L’autoproduzione è un’ambito relativamente facile se rimane quello che è: uno spazio in cui produrre da sé i propri progetti editoriali. Lo definisco facile perché alla base di questo ambito c’è il fatto che per iniziare non ti deve dare il via nessuno, è uno spazio che ti prendi da solo producendo le tue cose e portandole in giro. Non devi sperare di essere notato, contattato, assunto, semplicemente devi metterti tu in prima persona a “fare”. C’è chi lo fa per puro piacere o per muovere i primi passi con la prospettiva di eventualmente essere pubblicato da un’editore. Di impegnativo c’è il tempo che prende la creazione del libro e la sua promozione/distribuzione, quando ero agli inizi come illustratrice avevo sicuramente più tempo di oggi per poterlo investire nell’autoproduzione. Se si vuole trasformare il proprio progetto di autoproduzioni in casa editrice, probabilmente il percorso è più complesso. Per me è uno spazio parallelo in cui sviluppo progetti personali per il piacere di farlo e che da più giovane mi ha aiutato a farmi notare, è una cosa che amo fare e che non penso smetterò di fare”.
Come è cambiato il fumetto italiano dai tempi del Corriere dei Piccoli e quali le differenze rispetto alla tradizione americana?
“Una cosa che trovo particolarmente interessante del fumetto è che è un linguaggio narrativo piuttosto nuovo, ha poco più di 100 anni, per cui è davvero interessante vedere come si sia evoluto ed “espanso” in diverse direzioni. Dire come è cambiato in poche frasi mi risulta difficile e non penso di averne le competenze storiche. La cosa che mi piace del fumetto italiano di oggi, rispetto a quando ho iniziato a seguirlo poco meno di 20 anni fa, è che si sta aprendo di più alla sperimentazione e alla ricerca. Penso che il fumetto italiano e quello americano abbiano in comune una sorta di tradizionalismo che per anni ha portato entrambi a forme di raffigurazione della realtà fedele e spesso realistica. Nei fumetti americani questa cosa si è sviluppata nell’ambito del fumetto dei supereroi, in Italia nel fumetto d’avventura e di evasione. Negli ultimi decenni si sono ampliate le forme di raffigurazione visiva nei fumetti ed hanno accolto diverse sperimentazioni che personalmente trovo molto interessanti. Oggi sia il fumetto italiano che quello americano stanno vivendo questa veloce evoluzione, che non significa eliminare una corrente del passato, ma semplicemente aggiungere uno spettro più ampio di possibilità di raccontare visivamente.
Sei anche designer e hai pubblicato diversi libri. A cosa stai lavorando oggi?
“Al momento sto ultimando il primo libro per bambini completamente scritto e illustrato da me, uscirà in Francia per le edizioni Le Rouergue e si chiamerà Une drle chose pas drle. Nel frattempo sto seguendo un lavoro lungo di illustrazione con un’agenzia inglese e faccio alcune illustrazioni spot per l’editoria USA e italiana. Nel tempo che mi rimane cerco di sviluppare i miei progetti personali come il mio prossimo libro a fumetti e il diario a fumetti che pubblico online per chi mi segue su Patreon (una piattaforma per sostenere con pochi dollari i propri disegnatori preferiti)”.
Quando per te è stato chiaro che avresti fatto questo lavoro? Quando non disegni cosa fai?
“Ho sempre voluto fare questo, da bambina sapevo che volevo fare la disegnatrice (ho capito che che esisteva una professione dietro all’illustrazione quando ho letto di Beatrix Potter alle elementari). Quello che non mi era chiaro e che ha preso più tempo, era come poterlo trasformare realmente in una professione e non sapevo se ce l’avrei fatta a fare solo questo per mantenermi. È un lavoro molto precario, soprattutto i primi anni, la cosa forse più difficile è riuscire a mantenere alto l’entusiasmo e le energie che si hanno all’inizio. Penso di aver capito che la cosa stava imboccando quando ad inizio del 2011, mentre lavoravo per il festival Bilbolbul durante il giorno e la sera al mio primo libro a fumetti Bacio a cinque, ho deciso di diventare freelance a tempo pieno perché stavo iniziando a ricevere diverse proposte di lavoro.
Essendo un lavoro particolare, in cui fondamentalmente sono una libera professionista e mi occupo sia della parte artigianale che di quella contabile, spesso non mi rimane molto tempo libero durante la giornata.
Mi capita di disegnare anche nel tempo libero, quando non è per un cliente, lo trovo molto importante. Quando non disegno cerco di dedicarmi alle altre cose che mi piacciono e ai vari interessi che ho. Mi piace guardare serie tv, film, leggere romanzi e fumetti, ascoltare tanta musica e podcast, andare a mostre ed eventi legati al mio lavoro e all’arte in generale. Sono appassionata di manualità: vorrei approfondire il ricamo e il telaio, l’anno scorso ho seguito un corso di ceramica. Se posso, mi piace viaggiare e a volte cerco di farlo portandomi il lavoro, in modo da poter restare più tempo in un posto e vivere un po’ la vita quotidiana in un altro Paese”.
Vivi tra Barcellona e Bologna e frequenti molto Parigi e New York. Ci sono, secondo te, alcune città più iconiche e più rappresentate in fumetti o graphic novel? Se volessi fare un fumetto ambientato in una città, tu quale sceglieresti ?
“In effetti sia Barcellona che Bologna sono molto iconiche e piene di dettagli perfetti per poter diventare ambientazioni da fumetti. Bologna è la casa di molti fumettisti e per questo è stata rappresentata spesso da fumettisti come Vanna Vinci, Gio Pota e Flavia Biondi per esempio. Io avevo fatto un mini fumetto ambientato lì, e da studentessa Erasmus ho fatto un’intera autoproduzione dedicata a Barcellona. Forse se dovessi scegliere una città in cui ambientare una storia sceglierei di farla a Brooklyn, che è un posto che amo, oppure a Tokyo perché molti dei fumetti con cui sono cresciuta sono ambientati lì”.