L’autista dell’Uber arriva puntuale davanti Safeway, il supermercato dove ero entrata per rifugiarmi dall’aria pungente. Salgo in macchina, “Good morning”. La mia voce risuona soffusa, quasi impercettibile, da dietro la mia maschera respiratoria N94. L’autista accenna a un saluto. Siamo a sette minuti da casa, mi ricorda la app di Uber. Non c’è traffico e le strade sono semideserte. In California le distanze non sono quasi mai percorribili a piedi, né tantomeno raggiungibili facilmente con i mezzi pubblici come a Manhattan. Da quando mi sono trasferita a Berkeley, senza macchina, ho fatto affidamento sulla bicicletta e sui muscoli delle mie gambe. Ma oggi no. La bicicletta è rimasta a casa, parcheggiata fino a tempo indeterminato. Forse una settimana, spero meno.
Quando ritornerà quell’azzurro che sempre riempie i cieli della California? Quell’azzurro che già prima di venire qui, avevo immaginato attraverso i film e le canzoni? Un cielo turchino, vasto. Che corre senza interruzioni, a differenza del cielo di New York, un cielo, quest’ultimo, che invece è fatto di scorci, di ombre, di vetri e riflessi, un cielo di cui ti dimentichi. Qui il cielo è come un mare calmo dove tuffarsi. È generoso. Ora che è autunno cadono le foglie dagli alberi, ma la temperatura non scende mai sotto i 15 gradi. Come è possibile che a New York qualche ora fa abbia fatto la nevicata più intensa degli ultimi 80 anni e qui invece non piove da mesi? Siamo nella stessa nazione, ma la Grande Mela è lontana, impercettibile da qui. Non ho mai visto la pioggia in California, e sono arrivata il 10 agosto, da oltre 3 mesi. A New York la neve ha paralizzato la città, mentre in questa parte della West Coast, noi invece vorremmo scapparcene via, dall’arido terreno che ha dato i natali al più distruttivo incendio della storia californiana di sempre: noi, tutti i californiani di San Francisco e della Bay Area vorremmo sfuggire da un veleno che si sta insinuando nelle nostre anime e nelle vie respiratorie – silenzioso e mortifero. Di lui non sappiamo molto. Sappiamo solo che stordisce, irrita e le sue molecole sono piene di dolore e distruzione, e che porta con sé le polveri di case, oggetti, alberi e persone che non sono più. L’incendio è divampato oltre 200 miglia da Berkeley, la cittadina dove vivo. Paradise, è il nome del villaggio raso al suolo da questo incendio indomabile. Qualcuno l’ha ribattezzato Paradise Lost, come la celebre opera di Milton. L’incendio ha inondato, con le sue lingue di fuoco oltre 140.000 acri di foreste, villagi, strade, cittadine e soprattutto la nostra aria. Ci ha tolto l’ossigeno, e ci ha obbligato a vedere il mondo da dietro una maschera.
Entro in macchina, l’autista parte subito dopo. La radio suona musica pop recente. Il volume è basso, e il suono si perde dietro il rumore del vento che entra dai finestrini davanti, completamente abbassati. L’aria entra, quasi piacevole al tatto, in una giornata di novembre piuttosto calda. Ho la maschera che mi copre il volto, mentre il mio autista sembra non curarsi del veleno che entra ad ondate.
“Potrebbe chiudere il finestrino?” gli chiedo cortesemente. L’autista non reagisce, forse la mia voce si perde dentro la mia stessa maschera, e il vento copre ogni suono. Ripeto la mia domanda. Lui mi guarda di traverso dallo specchietto retrovisore. Io indico il finestrino, faccio cenno con la mano di chiuderlo. Non vedo alcuna espressione sul suo volto. Chiude solo uno dei due finestrini, e continua a guidare.
Mi chiedo se non senta anche lui questa aria pungente che fa lacrimare gli occhi. Non è una fantasia, non è una messa in scena dei mass media. L’aria è velenosa, e gli indici sono i più alti al mondo. Più inquinata della Cina. Un amico Yuan, originario di Shangai, con tono sarcastico, qualche giorno fa mi disse: “L’odore di questa aria mi rende nostalgico… Mi ricorda il mio paese. Lì è tutti i giorni così. L’inquinamento è tra i più alti al mondo.” Ma alla fine anche Yuan è partito, ha guidato fino a Los Angeles per arrivare poi a San Diego, quasi alle frontiere con il Messico. Chi può, è scappato da questa invasiva tossicità.

Ma questo autista… come è possibile che lui non la senta? Che lui non tema la contaminazione? Nel supermercato Safeway, il cassiere sorrideva a tutti i clienti. “Have a nice evening.” Mi sono avvicinata alla cassa per pagare, con la mia maschera sul volto: un pacco di pasta e uno yogurt, una spesa che non era altro che una scusa per rifugiarmi in un luogo chiuso. Il cassiere sorrideva, ed io anche, nascondevo dietro la mia maschera un sorriso incerto. Le porte automatiche si aprivano in continuazione, facendo comunicare l’aria all’interno del supermercato con il mondo di fuori. Ho sentito quasi un senso di colpa, questo impiegato deve stare come minimo 8 ore a respirarsi questo veleno. Non ha scelta, nel caso in cui si rifiuti di starsene tutto questo tempo in piedi, davanti la porta d’entranta del supermercato, perderebbe sicuramente il lavoro. Il cassiere, come se mi avesse capito. “It’s bad… but not so bad.” Ci si abitua a tutto, o ci rifiutiamo di vedere in faccia la realtà, e continuiamo a negare con testardaggine che “No, la situazione non è poi così grave.” Ma non vorrei abituarmi ad andare in giro con una maschera per le strade della mia città, come ho fatto da quasi una settimana. Non voglio vedere tutte maschere intorno a me, ma voglio guardare ai volti della gente. “E se… questo fosse il futuro?” Un mio amico mi disse questo, qualche giorno fa, scherzando. Era la prima volta che camminavo per le strade con la maschera, e osservavo la gente che la indossava con una certa disinvoltura. Io sentivo dentro di me un disagio. Quasi che mi vergognassi. Tanti non la indossavano, soprattutto gli indigenti, tanti purtroppo per le strade di Berkeley. Forse loro non hanno ascoltato le news, non sanno della pericolosità di questo smog per la loro salute. Nel giorno di venerdì siamo arrivati ad una qualità d’aria definita “very unhealty”, con un indice AQI che superava 200. “Very very bad!” Io devo aver guardato il mio amico con occhi di terrore, perchè lui subito dopo mi ha detto: “Ma scherzo, non è mica il futuro. Vedrai che tutto tornerà alla normalità!” Questo non è il futuro, ha ragione il mio amico. È il presente. L’aria non è più un bene comune. Quante volte ho dato per scontato il poter respirare? Il poter respirare liberamente… Tutta la mia vita l’ho dato per scontato.
Il mio autista Uber di stamattina, che mi venne a prendere a casa per portarmi all’ufficio postale, aveva invece la maschera e starnutiva in continuazione. “L’allergia sta iniziando a farsi sentire.” Mi ha risposto quando gli ho chiesto come stava. Eravamo in tre sull’Uber. Una ragazza che parlava in aramaico per telefono, io e il mio autista, visibilmente provato da giorni di guida in un ambiente contaminato.
“Quando passerà? Quando tornerà tutto alla normalità?”
“Nel Giorno del Ringraziamento dovrebbe piovere…” mi disse con poca convinzione. Giovedì… penso io. Ma siamo ancora a sabato.
“Il presidente è venuto a visitare le località colpite dal disastro…”
L’autista emise un suono, forse una risata sarcastica, o forse un colpo di tosse.
“Cosa ci aspettiamo da lui? Se ancora continua a dire che il riscaldamento globale è un’invenzione? E’ tutta colpa della manutenzione dei cavi elettrici, dell’incuria in cui sono abbandonate le foreste, è colpa anche dei vigili del fuoco, è arrivato a dire, il “nostro” presidente. Non mi rassicura che il presidente sia venuto a darci conforto. E’ venuto a fare la sua comparsata davanti ai media e al paese, perché vuole farsi propaganda. Perché non avrebbe potuto fare altrimenti.”
Non ho risposto, ma mi sono tornate alla mente le immagini del presidente americano che avevo visto la mattina in televisione. Aveva lo sguardo corrucciato, in un’espressione di cordoglio. Non usava neppure la mascherina quando si trovava a Chico, una delle località colpite più duramente. Lui sì che sa fare l’eroe al momento giusto, avevo pensato.
Mentre il mio Uber scende dalla collina di Berkeley verso la marina, sento il vento che mi muove i capelli. Non è il solito vento piacevole. Potrebbe esserlo, se per un attimo dimenticassi chi sono, e dove sono. Se per un attimo chiudessi gli occhi e immaginassi quel cielo azzurro californiano che ho sognato tante volte. Soprattutto nell’ultima settimana.