Una decisione inattesa
Un senso di stupore, di dolore e anche di smarrimento di fronte ad una decisione incomprensibile. «Come stiamo oggi? Siamo sotto un treno. Piano piano il dolore passerà e ricominceremo a lottare», le parole del padre di Riccardo Magherini, dopo la sentenza della Cassazione che ha cancellato le condanne dei tre carabinieri accusati della morte del figlio. In due gradi di giudizio, le conclusioni erano state le stesse. Omicidio colposo.
I militari erano intervenuti quattro anni fa in una strada di Firenze. Magherini, un ex calciatore della Fiorentina, era in stato di agitazione psicofisica per l’assunzione di cocaina, aveva delle allucinazioni, dava in escandescenze. I carabinieri lo immobilizzavano a terra mettendogli le manette, tenendolo con il viso all’ingiù anche quando in piena crisi respiratoria chiedeva di essere liberato perché stava soffocando: la morte era constatata subito dopo in rianimazione.
I tre non hanno fatto abbastanza per tutelarne l’incolumità mentre era sotto il loro controllo, mantenendolo prone a terra nonostante stesse male. Una posizione diversa – rimesso in piedi, in grado di respirare meglio – gli avrebbe consentito verosimilmente di riprendere fiato e di salvarsi. Ma per la Cassazione «il fatto non costituisce reato».
Non si conoscono le motivazioni ma probabilmente i giudici hanno ritenuto che i carabinieri non abbiano violato le regole di condotta e abbiano agito nell’ “adempimento di un dovere”. E’ pacifico che non sapessero che il ragazzo avesse assunto sostanze alteranti, si sono trovati a dover controllare un soggetto che dava in escandescenze causando pericolo innanzi tutto a se stesso oltre che agli altri. Una “scriminante“ sul piano giuridico, che non nega la dinamica dei fatti, ma tecnicamente la “giustifica”, inducendo a mandare assolti gli accusati.
La decisione ha sorpreso molti, oltre i congiunti di Magherini, e non solo perché, dopo due sentenze di merito conformi, sembrava prevedibile una conferma in Cassazione. Soprattutto turba quel dolore di fronte ad una morte che forse poteva essere evitata, che perciò è incomprensibile e non può essere “accettata“ serenamente. Sconvolgono gli interrogativi sulla condizione di un ragazzo in preda a svariate sostanze e dunque palesemente alterato e perciò fonte di pericolo per sé e per la comunità. Il discorso inevitabilmente si allarga. Si moltiplicano le domande sulla correttezza del comportamento delle forze dell’ordine in situazioni simili. Molte vicende ritornano alla memoria e si accavallano tra loro.
Altri casi drammatici
Non a caso, durante le fasi del processo, accanto a papà Magherini è apparsa Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, morto in occasione di un arresto, protagonista di una coraggiosa battaglia giudiziaria senza soste per la verità sulle cause del decesso del fratello. Una vicenda processuale, quella Cucchi, a dir poco drammatica e dai mille colpi di scena: dopo i primi processi a carico di sanitari e agenti di custodia, mandati assolti, ora sono sotto accusa i carabinieri, accusati di aver picchiato Stefano durante le fasi in cui era ristretto in caserma, e il giudizio sembra confermare la loro responsabilità: la verità è forse più vicina.
Un altro caso evocato a margine della vicenda Magherini è quella del giovane Aldovrandi, risalente a molti anni fa, nel 2005, per il quale sono stati condannati in via definitiva quattro poliziotti per eccesso colposo nell’ “uso legittimo delle armi“.
Episodi drammatici (Aldovrandi Cucchi, Magherini) hanno attraversato gli ultimi anni della storia civile del nostro paese, ponendo al centro dell’attenzione un problema dai contorni simili. Da un lato: la condizione della persona “problematica“ e “pericolosa“ (per ragioni sanitarie, comportamentali, persino giudiziarie) nei confronti dell’autorità. Dall’altro, la scelta di atti adeguati e corretti da parte delle forze dell’ordine nei confronti del soggetto controllato o ristretto. Una questione che deve essere vista dalla parte del cittadino inquisito e da quella dell’autorità inquirente, ma che ha al centro gli stessi valori, il rispetto della persona e quello delle regole di azione nei confronti di chiunque.
Il dolore non può rinunciare a interrogarsi sul singolo caso
La decisione della Cassazione ha determinato stupore e forse collide con il sentimento popolare, soprattutto sembra lasciare un vuoto. Nella comprensione dei fatti, nella spiegazione di una morte, nel chiarimento di un problema. E tuttavia spesso nella lettura delle vicende si adotta il criterio erroneo della sovrapposizione di un fatto ad altri, di una ricostruzione ad altre ritenute simili, e riesce facile la conclusione sommaria di riunirli tutti sotto la stessa voce. Così un processo rischia di trasformarsi in processi simili. Un po’ avviene anche con la vicenda Magherini. Ha organizzato una manifestazione di protesta un’associazione costituitasi “contro gli abusi in divisa”.
La solidarietà umana, la vicinanza al dolore di un padre, o di una madre, o di una sorella, per la morte dei loro giovani congiunti non può tramutarsi in una generalizzazione inappropriata. Ma ogni caso è a se stante, richiede un approfondimento specifico, può portare anche a conclusioni differenti pur nella stessa ottica di rispetto dei valori su cui si basa una collettività. Non ci sono “gli abusi in divisa“, ma quegli specifici abusi avvenuti quel giorno, in quel luogo, ai danni di quel tale.
Il vuoto di risposta che tutti avvertono con sconcerto rischia di diventare incolmabile e devastante quando si smarrisce la singolarità di ciascuna vicenda, e si perde il senso di unicità di una morte. La spiegazione processuale che si cerca faticosamente e magari discutibilmente di raggiungere è solo quella che concerne gli individui che vi sono coinvolti. La somiglianza è un criterio che porta fuori strada.