Intervista realizzata con la collaborazione di Chiara Nobis e Ilaria Maroni
Roberto Saviano ci accoglie con un sorriso. Un sorriso composto, ma aperto, che preannuncia quella generosità da scrittore con cui, come un palombaro, si immerge negli abissi più profondi della realtà per portare alla luce ragioni e dinamiche di cui pochi sono consapevoli. Lo fa nei suoi libri, lo fa in tv: lo fa anche di persona. Lo abbiamo incontrato a Bryant Park, piccolo e brulicante polmone poetico di Midtown, nelle vicinanze della Public Library dove, giovedì 13 settembre, alle 7pm, presenterà al pubblico americano The Piranhas, traduzione inglese della sua Paranza dei bambini (qui tutte le informazioni sull’evento). Anche la sola trasposizione del titolo, ci fa intendere, è stata una sfida: perché “la ‘paranza’ come ‘barca’ non avrebbe reso”. La scelta, voluta da Jonathan Galassi, editore di Farrar, Straus & Giroux, è dunque ricaduta sull’immagine dei piranha, che Saviano definisce “calzante”. “Si tratta di piccoli pesci, violenti quando sono in gruppo, debolissimi e perduti quando sono soli”. Proprio come quei ragazzini che, ci spiegherà poi, non hanno paura della morte prematura, ma, anzi, la scelgono come proprio destino.
La paranza dei bambini e la letteratura da un lato all’altro dell’Oceano
Io, quando scrivo, ferisco. Se non ferisco, non ho saputo scrivere
La paranza è un libro duro, che non risparmia. Ma il nostro interlocutore ce lo chiarisce da subito: lui non è fatto per l’intrattenimento. “Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, scrive una cosa bellissima: ‘La ragione è una ferita’. Solo chi vuole entrarci dentro può trovare il senso. Io, quando scrivo, ferisco. Se non ferisco, non ho saputo scrivere”. E quella che lui chiama “ferita purulenta” è esattamente lo squarcio che si avverte nell’incamerare quelle pagine. Forse anche perché, rispetto alle sue opere precedenti, si tratta di un vero e proprio romanzo. Saviano non ama la divisione netta tra “fiction” e “non fiction novel”, tipica del mondo anglosassone che, ci spiega, “da 20 anni a questa parte ha abbandonato il grande esperimento di Truman Capote e Guy Talese”: un approccio “miope”, a suo avviso. “Si dice ad esempio che la non fiction novel sia una ‘mela non mela’. La mia battaglia, invece, è stata per anni quella di cercare di ripulirci dal puritanesimo americano nella letteratura. Poi, ho scelto di fare un romanzo per raccontare una storia vera, ma consentendomi di entrare nella testa di questi ragazzini, di costruire dialoghi anche laddove non ero arrivato con le prove. Volevo sentirmi libero, quindi mi sono ispirato a fatti realmente avvenuti”. E i dialoghi, come in Gomorra – La serie, “sono ispirati, ‘saccheggiati’ dalle intercettazioni, ambientali o telefoniche”.
A livello culturale e letterario, non esiste città più razzista di New York
È proprio parlando di letteratura che lo scrittore traccia la prima grande distinzione con l’America, che definisce, insieme a New York, una “bolla”: “Gli americani sono ossessionati dalla giusta distanza, io sono ossessionato dalla vicinanza. Non mi importa essere soggettivo, non mi importa avere una posizione, mi importa essere chiaro, che la mia analisi non sia falsata dalla mia idea. Oggettivo, quindi, negli elementi che raccolgo, ma assolutamente soggettivo nel mio sguardo”. Ed ecco perché, per lui, ogni pubblicazione oltreoceano è una grandissima sfida: “Niente è più distante dall’America dello scrivere europeo e africano. Noi siamo ancora poveri migranti: fingono di darci qualche schiaffetto, ci concedono una recensione, ma sempre visti da molto lontano. In questo, a livello culturale e letterario, non esiste città più razzista di New York, non esiste mondo più violento, distante, diffidente rispetto all’Italia, alla Francia, alla Turchia. In quanto scrittori non americani siamo ancora lì, fermi a Ellis Island, non percepiti come realmente interessanti”.
Certo: in America, la sua Gomorra televisiva non ha scatenato le polemiche che hanno tenuto banco in Italia. Nel Belpaese, l’hanno accusato di “glamorizzare” la camorra, di renderla un modello: critiche che lui liquida con nonchalance e compostezza. Già in passato, appena conclusa la prima stagione, aveva chiarito che la sua intenzione era quella di “raccontare il male dal suo interno, mantenendo credibilità, alleggerendo la narrazione senza suscitare mai empatia”. Un obiettivo, dice oggi, raggiunto. “Altra cosa è la simpatia per un personaggio, che può accadere perché è parte della narrazione. Così avviene anche per i personaggi più ambigui della storia letteraria e non solo: spesso, ti innamori dei cattivi. Nel caso di Gomorra, non ti innamori: provi simpatia, di volta in volta, per personaggi che poi ti disgustano. Questa, almeno, è la direzione che ho creduto di dare”. Saviano afferma di non credere a un’arte che debba educare: “O meglio, l’educazione nell’arte avviene, ma non in modo così lineare per cui sia necessario fare propaganda al bene”. D’altronde, si chiede con un pizzico di ironia, altrimenti perché 8 anni di Don Matteo non hanno riempito l’Italia di preti?
Dallo schermo alla pagine, per lui scrivere un romanzo significa “permettere di stare dentro la ferita della realtà”. E quella ferita, in Paranza, non è rappresentata solo dalla mafia e dalla criminalità, ma soprattutto dal racconto di una “generazione che, sostanzialmente, sa di essere perduta. E quindi decide di morire, il prima possibile, perché è l’unica garanzia per ottenere quello che vuole”. L’accesso a grandi velocizzatori economici permette di accumulare vere e proprie fortune. E, in questo, la droga è il mezzo più efficace. “Molte persone non capiscono perché qualcuno uccida per 10 dollari. La grande verità, che vale dal Messico a Brooklyn fino a Napoli, è che, nella testa di una persona, per ‘svoltare’ bastano 5000 euro. Perché 5000 euro di cocaina, pura, valgono 1 milione”. Ecco che cosa c’è dietro la scelta, apparentemente incomprensibile, di rischiare 10 anni di carcere per guadagnarsi 50 euro con una rapina: dopo quei 50, ce ne saranno altri 50 e altri ancora. Per non parlare, poi, della facilità con cui si vende un sacchetto di coca. Certo: “Il 90% di chi cerca di fare questo investimento inciampa nei poliziotti, nell’antidroga, o cade”. Ma chi ce la fa, vive da nababbo. E se il prezzo da pagare è morire da giovani, questi “piranha”, spesso “di bell’aspetto, brillanti e dal grande eloquio”, non solo non hanno paura, ma lo considerano una medaglia da affiggersi al petto.
Anche New York ha i suoi “piranha”
Mi auguro che gli americani possano specchiarsi nelle pagine di “The Piranhas”
“Tutte le periferie del mondo si assomigliano”: Saviano lo ripete come un mantra. Ecco perché, con la pubblicazione di The Piranhas, si augura che gli americani “possano specchiarsi, non guardare con atteggiamento folkloristico”. Da Napoli a New York, passando per Parigi e Chicago, ogni città ha i suoi “piranha”. C’è una visione comune della donna e dell’uomo, e la stessa musica di sottofondo, il rap. Ma gli americani, chiediamo noi, saranno in grado di sostenere il proprio sguardo riflesso in quello specchio? “Ce la faranno i più colti: non intendo dal punto di vista accademico, ma chi ha capacità di coltivare la propria interiorità”.
Dalle parole di Saviano emerge un’America, e soprattutto una Grande Mela, di norma nascosta dietro le luci accecanti di Times Square e sepolta sotto più di un velo di ipocrisia. Quello di New York città aperta, per lui, è un “mito” che gli italiani amano raccontarsi: le chiavi per averne accesso sono invece “denaro e aspetto”; “altrimenti, è una città assolutamente inaccessibile, soprattutto per chi è in fase di crisi”. E osserva: “Ci sono poi entrate laterali, come la moda e il cibo: l’americano sente che tutto questo gli manca, e quindi se lo viene a prendere. Ma quando parliamo di lettere e cultura, solo una piccola parte di questa bolla è aperta a tutto ciò”. Cosa fare, dunque? “Nel suo Ultimo Diario, ricorda Saviano, “Corrado Alvaro osservò come, della sua civiltà, della sua cultura e della sua cucina, l’italiano decida di esportare sempre e solo quest’ultima”. Invece, prosegue, occorre “occupare ancora di più questa città” con progetti culturali come quello dell’Italian Academy della Columbia o della Casa Italiana Zerilli-Marimò della NYU. Progetti che “permettano di far conoscere la parte migliore di noi: non fare propaganda al Colosseo, ma esternare la nostra parte analitica, la nostra testa, il nostro talento”.
Gli italiani a New York? Pensano di essere considerati bianchi, ma in realtà non lo sono. Mi colpisce vedere come, per cercare di diventare newyorker, perdano solidarietà tra di loro
Quello dell’autore della Paranza non è un rifiuto totale e categorico della Grande Mela. “Di New York mi piace che è una città libera, non giudicante; mi piace la multiculturalità e la contaminazione”. Eppure, ne coglie con disincanto le contraddizioni, spesso sepolte sotto una retorica sensazionalistica e acritica anche da parte di chi è giunto dallo Stivale con un bagaglio di speranze. “Gli italiani pensano di essere considerati ‘bianchi’, ma la realtà è che non lo sono”, ci fa notare. Lo si stabilì nel 1900, con le quote migratorie, ed eravamo in compagnia, tra gli altri, di greci, irlandesi e ungheresi. “Mi colpisce vedere come gli italiani, per cercare di diventare newyorker, perdano solidarietà tra di loro: perché più aiuti un tuo connazionale, più senti di non essere americano”. Il risultato? La comunità si estingue, e con lei la cultura e la lingua di cui è portatrice. Una lingua che avrebbe bisogno di essere difesa e diffusa, e invece è lasciata morire a poco a poco. Diverso, argomenta Saviano, il caso dello spagnolo, valorizzato, ad esempio, dalle sempre più numerose serie tv che approdano oltreoceano. “Se davvero la nostra lingua sta morendo, allora decretiamone il funerale, e facciamo come fanno gli svedesi o i danesi, che a scuola parlano inglese: altrimenti, si creano solo persone svantaggiate”.
Oltre le apparenze, la New York criminale
Il prezzo della cocaina lo fa New York, sempre, in tutto il mondo
Ma è quando ci descrive la criminalità mafiosa che fa affari anche in questa città che la “ferita purulenta” sanguina con più vigore. Il disincanto è totale, non ammette appello, proprio come quando, nei suoi libri, parla della sua amata Napoli, e la descrizione delle dinamiche vanta una precisione quasi chirurgica. “La comunità italoamericana avverte il dolore del pregiudizio, e non ama sentir parlare di mafia. E invece, proprio per questo dovrebbe ribaltarlo e raccontare”. New York, ci spiega, “è stato un terminale enorme di mafia italiana”, rappresentata dalle cinque famiglie Colombo, Lucchese, Genovese, Gambino, Bonanno. Un mondo che ha successo perché rifiuta le leggi, ma rispetta le regole. “La regola, a New York, è che se tu ti affili, nessuno può più farti niente”. E poi c’è la coca, quella di cui ha svelato i percorsi in ZeroZeroZero, venduta dai dominicani, e che arriva, oggi, in gran parte dal Canada, dalla strada messicana. “I messicani, ormai, sono ai vertici. I reati li commettono le comunità caraibiche, i portoricani e i giamaicani”. E gli italiani sono quelli che risolvono i problemi, “in cambio di soldi, ristoranti, appalti”. “Questa è l’America, un Paese per fare mafia”, sintetizza icasticamente.
Nonostante la legge Rico, dunque, la criminalità organizzata continua ad esistere anche negli Stati Uniti. E New York “è un posto strano: quando ammazzano qua, la notizia viene ripresa in tutto il mondo. Ecco perché le organizzazioni devono stare attentissime, sparare il meno possibile”. Poco sangue, tanta droga: da questo punto di vista, la Grande Mela “è il paradiso”. “Il prezzo della cocaina lo fa New York, sempre, in tutto il mondo, tanto è vero che tutte le mafie, compresa quella nigeriana, si regolano quasi sempre sul prezzo di qui”. Anche sotto questo punto di vista, la Grande Mela è una città trend setter: “La coca che piace a New York diventa quella che piace nel mondo, esattamente come i film e i vestiti”.
La polemica con Salvini e il Sud
Qualunque cosa accada, nella narrazione chi è venuto prima è stato peggio, quindi Salvini e i Cinque Stelle possono fare qualunque cosa. Succedeva anche nel fascismo degli anni Venti e Trenta
Neppure quando gli chiediamo di spostare il suo sguardo sul Belpaese, e in particolare sulla polemica con il ministro dell’Interno Matteo Salvini, Saviano si esime dal tracciare un’analisi profonda, personale. Non credi – gli abbiamo chiesto – che la bagarre mediatica con il vicepremier leghista finisca per fare il suo gioco, un po’ come accaduto con Trump in America? “È probabile che questo accada”, ci risponde con sincerità, “ma in questo momento non voglio parlare a chi non la pensa come me: voglio creare comunità. Verrà un tempo in cui mi rivolgerò anche a chi la pensa diversamente: nella fase finale del berlusconismo volevo soprattutto incontrare persone con punti di vista differenti e provare a condividere e a convincerle”. Adesso, però, farlo sarebbe a suo avviso prematuro. “Quello che sta succedendo è molto semplice: qualunque cosa accada, nella narrazione chi è venuto prima è stato peggio, quindi Salvini e i Cinque Stelle possono fare qualunque cosa”. E aggiunge: “Così succedeva anche nel fascismo degli anni Venti e Trenta”. Ed è proprio in questo contesto che, per lui, il compito dell’intellettuale diventa la testimonianza: non tanto il creare consenso, quanto il raccontare “le bugie sistematiche” del ministro dell’Interno, smascherando quella retorica per cui “tutto ciò che è libero, tutto ciò che è studio è visto come élite, imbroglio, manipolazione, massoneria”. “Come diceva Rostand, autore del Cirano, ‘spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato’”, chiosa.
Lucida anche la sua visione del Sud Italia, proprio nei giorni in cui il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha chiuso l’accordo sull’Ilva di Taranto. “Un tradimento per l’elettorato Cinque Stelle, e lo stesso accadrà, più in generale, per il Sud. Già sento chi dirà: ‘Però quelli di prima?’. Quelli di prima, un disastro: i Cinque Stelle hanno vinto proprio perché il Pd di Renzi si era legato ai potentati locali”. La sinistra, quindi, ha le sue responsabilità, e, parallelamente, i pentastellati hanno saputo “fare comunità”. “Il Sud è nella disperazione, ed è arrivato a considerare meglio del nulla gli incompetenti. La rabbia è stata gigantesca”. Nel frattempo, per Salvini, “i meridionali diventano, da strumenti di odio, a strumenti di consenso”.
L’Italia è un Paese in via di estinzione: non si nasce più, non si è più felici, non si lavora più
Un quadro fosco, le cui prime vittime – come da tempo accade nel nostro Paese – sono i giovani. Quei giovani di cui Saviano ha raccontato le vite stravolte e bruciate nel suo libro; quei giovani che, d’altra parte, lasciano il Belpaese perché capiscono che, lì, non ci sarà spazio per la propria realizzazione. E in un tempo caratterizzato dall’ossessione per l’immigrazione, “è questa la vera emergenza. Ogni anno, 100mila persone partono: è come se una città come Verona si svuotasse. L’Italia è un Paese in via di estinzione: non si nasce più, non si è più felici, non si lavora più”. Ma soprattutto, argomenta il nostro interlocutore, “questo è il grande tabù della politica, specialmente in campagna elettorale”. Le ragioni? Da un lato, perché “fuori, pochissimi voteranno, e chi lo farà sarà condizionato dalla famiglia”; dall’altro, perché promettere il ritorno e non mantenerlo provocherebbe una emorragia di voti straordinaria.
Italo Calvino sosteneva che in ogni vera poesia esista un “midollo di leone”, inteso, anche, come “il senso della realtà scontata e difficile, la non adesione alle apparenze più vistose, l’avara presenza del bello e del bene”. L’impressione che ci lascia questa ricca conversazione newyorkese con Roberto Saviano è che, per lui, quel “midollo di leone” sia propria la “ferita purulenta” che il suo sguardo sulla realtà illumina e fa sanguinare. In ultima istanza, come sosteneva Bernard Malamud, che cos’è la vocazione letteraria se non “una benedizione capace di sanguinare come una ferita”? Ecco, forse, uno dei motivi per cui in Italia l’autore di Gomorra risulta tanto divisivo: la testimonianza è un atto di lealtà e amore, ma comporta una ferita, dolorosissima. E la scelta è perentoria: “Se non ti vuoi ferire – cosa legittima -”, consiglia lui, “non devi leggermi…”.
Riprese e foto di Chiara Nobis
Montaggio video di Giulia Pozzi, sottotitoli di Ilaria Maroni