OTTANT’ANNI FA, LA CACCIA ALL’EBREO
Preparata da una martellante campagna di stampa, nel 1938 il regime fascista inaugura la sua sciagurata politica di persecuzione degli ebrei. Nell’alleata Germania, i provvedimenti antisemiti sono in vigore da anni; per suggellare la vicinanza a Hitler, Mussolini vuole colmare la lacuna: vara norme per discriminare quella che è bollata come “la razza ebraica”.
Una razza nemica, perché al regime serve un nemico. Un nemico serve sempre, e quello che serve lo si crea. Succede sempre così.
Le leggi razziali sono firmate dal re Vittorio Emanuele III di Savoia il 5 settembre. È in vacanza a San Rossore. Fa la sua consueta passeggiata sul bagnasciuga; pranza, assapora la scaglia di parmigiano di cui è goloso; poi intinge la penna nel calamaio, firma quelle abominevoli leggi.
Si comincia con l’espulsione degli insegnanti e degli studenti ebrei da scuole e atenei. Poi si prendono di mira gli ebrei stranieri, costretti a lasciare il Paese.
È un crescendo: vietati i matrimoni misti, licenziati gli ebrei dalle amministrazioni pubbliche. Proibito prestare servizio militare, essere proprietari di aziende, terreni, fabbricati, avere domestici “ariani”. Un ebreo non può essere medico, giornalista, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, ragioniere, notaio, architetto, chimico, agronomo, perito agrario o industriale…
La propaganda fascista presenta gli ebrei come una gigantesca piovra che stende i suoi tentacoli sull’intera società. E dire che tanti, hanno la tessera fascista in tasca. Perseguitati anche loro.
Il razzismo fascista non è “all’acqua di rose” come si comunemente si crede. Le leggi razziali fasciste sono una vergogna, una imperdonabile infamia; una vera e propria tragedia per migliaia di persone, perseguitate, umiliate, messe alla fame, arrestate, e alla fine spedite nei campi di sterminio, nei lager.
Italiani brava gente; ma non sempre, non con tutti. Sempre valido e attuale il monito del grande filosofo spagnolo George Santayana: “Il progresso, lungi dal consentire il cambiamento, dipende dalla capacità di ricordare… Coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo“.
1972, MONACO, NELLE STESSE ORE MASSACRATA LA SQUADRA OLIMPIONICA ISRAELIANA DA TERRORISTI PALESTINESI
È giusto anche ricordare anche il massacro di Monaco di Baviera, durante le Olimpiadi estive del 1972 ad opera di un commando di terroristi palestinesi aderenti a Settembre Nero.
I terroristi irrompono negli alloggi destinati agli atleti israeliani, uccidono subito due atleti che tentano di opporre resistenza, prendono in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele. Il maldestro tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca porta alla morte di tutti gli atleti sequestrati, di cinque terroristi e di un poliziotto tedesco, l’agente Anton Fliegerbauer. In modo surreale i giochi olimpici proseguono, come nulla fosse accaduto. L’importante è “partecipare”.
Le vittime:
• David Berger, 28 anni, pesista, nato negli Stati Uniti, emigrato di recente in Israele.
• Ze’ev Friedman, 28 anni, pesista, nato in Polonia, sopravvissuto alle persecuzioni razziali naziste.
• Yossef Gutfreund, 40 anni, arbitro di lotta greco-romana, padre di due figlie.
• Elizer Haflin, 24 anni, lottatore, nato in Unione Sovietica, cittadino israeliano da pochi mesi.
• Yossef Romano, 31 anni, pesista, nato in Libia, padre di tre figli e veterano della guerra dei Sei Giorni.
• Amitzur Shapira, 40 anni, allenatore di atletica leggera, nato in Israele, padre di quattro figli.
• Kehat Shorr, 53 anni, allenatore di tiro a segno, nato in Romania, aveva perso la moglie e una figlia durante la Shoah.
• Mark Slavin, 18 anni, lottatore, nato in Unione Sovietica ed emigrato in Israele nel maggio 1972.
• André Spitzer, 27 anni, allenatore di scherma, nato in Romania e padre di una bimba di pochi mesi.
• Yakov Springer, 51 anni, giudice di sollevamento pesi, nato in Polonia e unico sopravvissuto del suo nucleo familiare all’Olocausto.
• Moshe Weinberg, 33 anni, allenatore di lotta greco-romana, nato in Israele.
LE “ODI”, TRA ORAZIO E CERONETTI
Leggere per il piacere di farlo. Il piacere del testo, per dirla alla Roland Barthes ( “Se il testo arriva a farsi ascoltare indirettamente produce in me il miglior piacere”); ecco: c’è questo “piacere” nelle “Odi” di Orazio, scelte e tradotte da Guido Ceronetti (Adelphi, fresco d’uscita).
Nella sua splendida prosa, Ceronetti introduce: “…Ma insomma, questo Orazio, chi è? Quale aiuto ci può dare anche oggi, dalla sigillata tenebra dei secoli della romanità precristiana? Un aiuto ai non del tutto delatinizzati: oranti nostalgici della messa tridentina, medioevalisti e antichisti presumo lo conoscano, preti sperduti e filologi universitari, vagabondi innamorati di citazioni dimenticate o incomprensibili. Nessun politico che mai lo citi”.
Non sono accidenti del caso queste mancate citazioni e conoscenze; si spiega perché così rari siano i politici circolazione, a fronte dei tanti cialtroni arroganti potenti/prepotenti/impotenti spacciati come tali; nessuno cita Orazio perché pochissimi sono coloro che sanno di politica, e sanno farla. A quei pochissimi, Orazio certamente non sfugge.
Ceronetti “offre” un Orazio che poco ha da spartire con quello studiato e imposto nelle scuole. Cita Marguerite Yourcenar (“Mémoires d’Hadrien”, bien sur), il saggio che precede la sua versione delle poesie del poeta greco Konstantinos Kavafis: “Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell’Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere”.
LEONARD BERNSTEIN, WEST SIDE STORY
E va bene: era un radical-chic, Leonard Bernstein, di cui si celebra il centenario della nascita; Tom Wolf così lo definisce, e lo infilza, quando lo vede raccogliere fondi per le Black Panthers, durante un party nella terrazza del suo appartamento di Park Avenue a New York, una coppa di champagne in mano (Bollinger, potrei scommetterci).
Però Bernstein è anche l’autore della colonna sonora di “West Side Story“, un musical di metà anni Cinquanta coraggioso, per quei tempi di maccartismo e Ku Klux Klan.
Coraggioso ambientare questo rifacimento dello shakespeariano “Romeo e Giulietta” ambientato nell’Upper West Side; e raccontare le rivalità razziale tra gli Sharks, immigrati portoricani; e i Jets, banda di ragazzi bianchi.
Riff, Maria e Bernardo, a parte, ci sono poi capolavori: come “Somewhere“, “Maria“, “Tonight“, “America“, “I Feel Pretty“… Fa parte dei classici l’omonimo film di Robert Wise, con gli indimenticabili Natale Wood, Richard Beymer, Rita Moreno, George Chakiris.
TRA DANTE E TOTO’, PECORE MATTE, UOMINI O CAPORALI?
Senza data, senza tempo, universali. L’accostamento potrà risultare bizzarro, ma l’esortazione, infine, è comune: cercare di essere quello che in Spagna chiamano “hombre vertical”.
“…Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte…”.
(Dante, “Paradiso”, Canto V)
“L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque…Caporali si nasce, non si diventa: a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera“. (Totò)