Cinema, perché.
Il direttore del Festival Internazionale del cinema a Locarno Carlo Chatrian, al sesto e ultimo mandato (andrà a dirigere il Festival del cinema a Berlino), ha posto l’edizione del Festival all’insegna dell’umanesimo, celebrando i 70 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
In una “lettera d’amore” rivolta al festival, scrive: “Mi pare che mai come in quest’epoca le persone abbiano paura di guardare in faccia al prossimo…Allora lo schermo cinematografico, così grande da non poter essere evitato, acquista un nuovo ruolo. Il cinema, quella sala dove la dimensione collettiva è imprescindibile, diventa il luogo in cui il volto del prossimo ci guarda…”.
Amici miei, fantastiche amicizie, in tempi di monti furenti…
15 agosto 1975: esce il primo dei tre “Amici miei”; è diretto da Mario Monicelli, da un progetto di Pietro Germi, che non lo può realizzare, per la grave malattia che lo paralizza.
La sceneggiatura è firmata da veri e propri “maestri”: lo stesso Germi; e Piero De Bernardi, Leonardo Benvenuti, Tullio Pinelli; gli interpreti, nel fare il film devono essersi divertiti come non mai: Ugo Tognazzi (Raffaello Mascetti), Philippe Noiret (Giorgio Perozzi), Gastone Moschin (Rambaldo Melandri), Adolfo Celi (professor Sassaroli), Duilio Del Prete (l’iniziale Guido Necchi; poi lo interpreta Renzo Montagnani, Bernard Blier (Nicolò Righi).

Sette anni dopo ecco “Amici miei atto II”: regista sempre Monicelli, soggetto e sceneggiatura firmati dall’identica squadra; manca solo Germi, che nel frattempo è morto.
La “filosofia” del film è tutta in una battuta del Necchi: “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione“. Per quel che riguarda le “zingarate”, ovvero l’arte di realizzare in modo serissimo degli scherzi atroci, e di liquidare con sberleffi irriverenti le cose serie. La trilogia si conclude nel 1985. Il regista è un altro grande, Nanni Loy; identica la squadra degli sceneggiatori e degli interpreti.
Anche la banda di “Amici miei” è costituita, alla fine, da “vitelloni”. Diversi da quelli raccontati da Federico Fellini: entrambi venati da malinconie di fondo, i romagnoli sono più sognatori; i cinque amici fiorentini sono beffardi, coltivano il gusto acre di congegnare burle feroci e crudeli.
Alla fine a cosa si riduce il loro “fare”? In un disperato e infantile tentativo di esorcizzare la paura della vita e della morte, un illusorio tentativo di fermare, a colpi di cinismo, l’inesorabile scorrere del tempo.
La scelta di Firenze è stata casuale. In un primo tempo la città doveva essere Bologna. Il “trasferimento” lo si deve a Monicelli. Gli sceneggiatori hanno lavorato di fantasia, fatto ricorso alle risorse del “mestiere”, ma si sono anche ispirati a fatti di cronaca.
Sia il conte Mascetti, nobile decaduto, che l’architetto Melandri, inguaribile romantico, sono esistiti, anche se ovviamente sono stati trasfigurati. Lo stesso Moschin racconta che il suo ruolo si ispirava ad un architetto fiorentino perdutamente innamorato della moglie di un noto avvocato; nel film trasformato nel chirurgo Sassaroli. Leggenda vuole che, che nella realtà le cose siano andate come le si racconta nel film: che l’architetto sia andato a chiedere la mano della donna al marito cornuto.
Anche le “zingarate” in buona parte si sono ispirate a fatti realmente accaduti. In origine per il ruolo del conte Mascetti si era pensato a Marcello Mastroianni, che però rifiuta l’ingaggio, preoccupato che la sua interpretazione potesse essere offuscata dagli altri attori.
Monicelli pensa a Raimondo Vianello, che a sua volta declina l’offerta. Tognazzi accetta. Nel primo “Amici miei” il ruolo di Necchi è interpretato da Duilio Del Prete, indicato da Germi. Monicelli decide di rispettare le sue volontà, però aveva già in mente Montagnani; che viene ingaggiato per le altre due puntate della saga.
La fantastica Tina Pica

Chissà se qualcuno se lo ricorderà. Il 15 agosto di cinquant’anni fa ci lasciava Tina Pica. Era nata nel quartiere Borgo Sant’Antonio Abate di Napoli, famiglia di attori. Il padre, Giuseppe, già capocomico interprete del personaggio don Anselmo Tartaglia; la madre l’attrice Clementina Cozzolina.
Da giovane lavora nella popolare Compagnia Drammatica di Federico Stella. Fonda poi una sua compagnia, il Teatro Italia, e comincia a scrivere le prime commedie. Negli anni Trenta il grande incontro: con la compagnia di Eduardo De Filippo, con il quale iniziò una collaborazione artistica che la vedrà partecipare a commedie teatrali come “Napoli milionaria“, “Filumena Marturano“, e “Questi fantasmi“.
A parte l’apparizione in due film muti di Elvira Notari del 1916, il vero esordio sul grande schermo è con “Il cappello a tre punte” (1934), di Mario Camerini; seguito da “Fermo con le mani!” di Gero Zambuto del 1937, con Totò.
Dopo varie pellicole (“Il voto“, 1950; “Ergastolo“, 1952), a 69 anni interpreta il ruolo di Caramella in “Pane, amore e fantasia” (1953) e nei seguiti “Pane, amore e gelosia” (1954), con cui vince il Nastro d’Argento alla migliore attrice non protagonista, e “Pane, amore e…” (1955): commedie grazie alle quali diventa una delle caratteriste comiche più amate del cinema italiano del dopoguerra.
Tra le sue interpretazioni più popolari: “Buonanotte… avvocato!” (1955), “Destinazione Piovarolo” (1955) con Totò; “Un eroe dei nostri tempi” (1955), “Era divenerdì 17” (1956), “Ci sposeremo a Capri” (1956), “La nonna Sabella” (1957), con Sylva Koscina e Renato Salvatori; “La nipote Sabella” (1958), “Lazzarella” (1957)), “Il conte Max” (1957), “La zia d’America va a sciare” (1958); “La duchessa di SantaLucia” (1959), “La Pica sul Pacifico” (1959), “Non perdiamo la testa” (1959), e “Ieri,oggi, domani” (1963), il suo ultimo lavoro per il cinema, all’età di 79 anni.
Tina Pica si spegne a 84 anni a Napoli; a Roma c’è una strada con il suo nome; a Napoli un giardino.
Cinema contro il razzismo

Fra qualche giorno, esattamente il 25 agosto, saranno cento anni dalla nascita di Leonard Bernstein. Grandissimo compositore, direttore d’orchestra, pianista, secondo un sondaggio condotto da Classic Voice che ha interpellato cento direttori d’orchestra, Bernstein è considerato il secondo più grande, davanti a Herbert von Karajan e Arturo Toscanini, preceduto solo da Carlos Kleiber.
Sua, tra le altre, la colonna sonora del musical “West Side Story” (libretto di Arthur Laurents, parole di Stephen Sondheim, liberamente tratto da “Romeo e Giulietta” di Shakeaspeare).
Siamo nella metà degli anni ’50, Upper West Side di New York. Due bande si fronteggiano: gli Sharks, immigrati portoricani; e i Jets, gang composta da bianchi. Tony, ex Jets e miglior amico del loro capo, Riff, si innamora di Maria, sorella di Bernardo, leader degli Sharks.
Con le sue tematiche complesse, la colonna sonora sofisticata, l’interesse per tematiche sociali e razziali e le lunghe sequenze danzate, “West Side Story” segna un punto di svolta nel teatro musicale.
La colonna sonora, firmata da Bernstein, include grandi capolavori: “Somewhere“, “Maria“, “Tonight“, “America“, “I Feel Pretty“, “Something’s Coming“.
Un enorme successo di critica e pubblico: tre Tony Award, in a scena a Broadway per 732 repliche, prima di imbarcarsi in un interminabile tour in tutti gli Stati Uniti.
A Londra, all’ Her Majesty’s Theatre, il musical replica per 1.038 volte; e gira il mondo: Germania, Italia, Giappone, Scandinavia Israele, Messico, Canada… Un successo consolidato dall’omonimo film diretto da Jerome Robbins e Robert Wise, con Natalie Wood, Richard Beymer, Rita Moreno, George Chakiris e Russ Tamblyn. Film premiato con dieci Oscar.
Sono gli anni in cui Hollywood dà il meglio di sé.
In quegli anni escono anche “La calda notte dell’ispettore Tibbs“, di Norman Jewison, con due fuoriclasse: Sidney Poitier e Rod Steiger, e “Indovina chi viene a cena?“, di Stanley Kramer. Anni importanti, per quel che riguarda i diritti civili; per dire: le tre famose marce da Selma a Montgomery.
Kramer è un regista e produttore coraggioso, per quei tempi: ammira Martin Luther King, realizza “La parete di fango“, che nel 1958 dà il via a Poitier.Un anno dopo l’antimilitarista “L’ultima spiaggia” e “Vincitori e vinti“, che racconta senza retorica e molta sobrietà, il processo di Norimberga. L’essenza del film è nella frase finale del giudice, interpretato da Spencer Tracy: che fa quello che è giusto, non quello che è “utile”.
Al tempo stesso Kramer ha un tocco “leggero”, che gli consente di fare “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo” e “Il segreto di Santa Vittoria“, con una splendida Anna Magnani e un bravissimo Anthony Quinn.
La sceneggiatura di “Indovina chi viene a cena?” è di William Rose, un nome una garanzia. Gli interpreti sono Tracy, padre liberal che va di testa perché la figlia vuole sposare un nero conosciuto appena dieci giorni prima; Katherine Hepburn, anche lei sbalestrata, capisce l’amore, e presto si schiera con la figlia. La situazione divertente è costituita dai genitori di lui e dalla cameriera dei due “liberal”: sono ostili al matrimonio col bianco.
La cameriera è quella Isabel Sanford che poi ritroviamo nella sit-com dei “Jefferson“: la Louise, moglie di George. Anche in quella sit-com, tra una risata e l’altra, elementi “coraggiosi”: due neri diventati rispettabili per via del denaro, vanno a vivere nel sofisticato Upper West Side; e lui, George si permette di guardare dall’alto in basso i bianchi, e in particolare il marito bianco della coppia mista la cui figlia amoreggia con il figlio dei Jefferson…
Per tornare a “Indovina chi viene a cena?”, oggi è poco più di una favoletta; ma pensiamo a quegli anni, e all’impatto del ruolo giocato dal sacerdote della coppia “liberal”, al discorso finale di papà Spencer… Un film che “segna”, come per altri versi segna, negli stessi anni, la saga di “Star Trek“, con il suo equipaggio interetnico. Nichelle Nichols, il tenente navigatore Uhura, è di pelle nera, e in una puntata ha un romanzetto con il capitano Kirk: si esibisce in quello che viene considerato il primo bacio interraziale della storia della TV americana. Quando vuole mollare la parte, perché vuole recitare teatro “serio”, è lo stesso M.L.King che la prega di continuare, perché, sostiene, “è utile alla causa”.
In breve: non solo dai libri o dai giornali, ma anche i film, le fotografie, e in generale tutto quello che si “vede”, aiutano a comprendere i tempi che si vivono, e grazie a loro si può cogliere e capire quello che accade, cercare di far tesoro di quello che è successo.
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