Ieri sera, alla festa dell’Unità, il giornalista de L’Espresso Marco Damilano ha fatto da moderatore ad un dibattito fra il Presidente della Camera Roberto Fico e Graziano Delrio. Quello che colpisce di questa notizia, oltre alla presenza del leader della sinistra pentastellata ad una manifestazione simbolo del PD, è stato il confronto diretto fra due esponenti di gruppi politici opposti, uno all’opposizione ed uno no. Ovviamente, quello all’opposizione è proprio Fico.
Tralasciando per un istante l’insostenibile leggerezza del PD, partito la cui bandiera è presa fra più fuochi – tutti amici – e ad un baratro dall’ininfluenza politica, ciò che emerge è un quadro decisamente confuso del Movimento 5 Stelle come forza di governo e non più di opposizione alle élite. Infatti, se dapprima la sua natura post-ideologica è servita alla creatura di Beppe Grillo per canalizzare la rabbia e l’indignazione di una grande fetta della popolazione verso un’unica realtà, transpartitica e transideologica, dichiaratamente populista e fuori dal grande scacchiere del potere, adesso le sue stesse caratteristiche rappresentano un limite e non più un’opportunità.
Tutti, da Renzi a Di Maio, passando per Berlusconi, credevano nell’idea del partito liquido: un comitato elettorale “piglia tutto” capace di sottrarre voti alle opposizioni per il solo merito di definirsi migliori degli altri, senza veramente offrire un binocolo capace di scavalcare l’alta siepe delle elezioni e del breve periodo. Ma mentre il PD, liberandosi della sovrastruttura ereditata in parte dal vecchio PCI, adesso langue perché completamente sradicato dal territorio e dalle sezioni locali, il M5S, che ha fatto della democrazia digitale e liquida il suo cavallo di battaglia, ha conquistato il titolo di primo partito alle scorse elezioni.
Ed ecco il colpo di scena. Quando tutti pensavamo che le ideologie fossero morte e sepolte, Matteo Salvini ha portato un partito secessionista e fortemente regionale dall’oblio del post-Bossi al quasi 32% dei sondaggi odierni. Questo impressionante risultato è stato possibile grazie all’astuzia del leader padano e alla sua interpretazione pedissequa della ricetta per un partito di destra. Infatti, la Lega Nord ha tagliato l’indicazione geografica dal nome, è passata dal secessionismo padano ad un nazionalismo euroscettico, da un paganesimo nordico ad un cattolicesimo ortodosso, ha introdotto un pensiero nativista, strizzato gli occhi alle forze dell’ordine, reintrodotto gli ideali di ordine e disciplina, di tradizionalismo ed autarchia. L’ideologia della Destra reazionaria è tornata fra i vivi e tutti gli altri partiti adesso sono smarriti ed impauriti, pentastellati compresi.
Tornando al Movimento 5 Stelle, la condizione di subalternità di Di Maio nei confronti di Salvini ed i malumori di Fico si giustificano con la totale assenza di ideologie a sostegno del partito di Grillo. Infatti, se il movimento può permettersi di plasmare a proprio piacimento i suoi obiettivi e le sue aspirazioni, adattandosi camaleonticamente ad ogni habitat politico pur nel rispetto di alcuni principi molto vaghi come la democrazia dal basso e la lotta ai poteri forti, i singoli leader delle correnti non sembrano possedere lo stesso pensiero fluido. E così, Fico – ex comunista – attira un elettorato deluso dalla sinistra attuale ma non può farla passare liscia ad un iperattivo Salvini nel ruolo di Ministro degli Interni, della Difesa e degli Esteri, nonché vice Premier e capo partito. Le loro posizione sulle politiche di chiusura dei porti sono agli antipodi e sul caso Diciotti non sono mancati i botta e risposta con uno stizzito Salvini: “Tu fai il presidente della Camera, io il Ministro”. Ma anche Di Battista, collegato dal Guatemala alla Festa del Fatto, critica il capo del carroccio su immigrazione e opere pubbliche e lo sfida politicamente a fare meglio del M5S. L’unico ad imbarazzare i pentastellati oltranzisti è Di Maio, sempre silenzioso, costantemente disposto a fare da spalla nella sua posizione schiacciata fra fuochi contrapposti, fondamentalmente democristiano per ambiguità. Lui, a differenza dei due colleghi citati, è sempre stato l’anima istituzionale e non quella guerriera ed adesso gioca il ruolo di paciere per evitare di far perdere l’opportunità di governare al suo movimento. Del resto, con la fulminea ascesa della Lega nei sondaggi, non ci è dato sapere il risultato di eventuali nuove elezioni che potrebbero addirittura portare una coalizione puramente di destra al governo.

Allora delle due l’una. O i pentastellati istituzionalizzano alcune loro idee politiche minacciando fermamente ostruzionismo su alcuni punti fondamentali come immigrazione, sicurezza, opere pubbliche e welfare, oppure dovranno cercare di fidelizzare il proprio elettorato su posizioni poliformi, andando a pescare voti dal centrosinistra al centrodestra e facendosi portatori di alcune istanze conservatrici ed alcune progressiste, vessillo di giovani e vecchi, con mille correnti ma con una leadership pronta a tutto pur di non far cadere in disgrazia la nuova “balena bianca”. Per adesso, Salvini sembra essere riuscito a drenare voti dalle correnti di destra del M5S, facendo perdere al movimento alcuni punti percentuale nei sondaggi e creando il panico fra quegli attivisti più critici che vedono in un Di Maio poco incisivo il problema fondamentale.
Ciò che resta di questo ambaradan di voci e posizioni è il dilemma pentastellato: trasformare il movimento in una sola voce, perdendo la pluralità interna a favore di un maggiore peso in fase di contrattazione con le altre forze politiche, oppure lasciare inalterato il proprio sottobosco di capi-corrente e sotto-ideologie, rafforzando l’ambiguità interna, il trasformismo e l’istinto di conservazione. Per adesso, nello scontro fra una rinata ideologia di Destra ed il partito liquido, la Lega batte M5S 1-0, sorpassando il movimento nei sondaggi e nell’esposizione mediatica. Il partito di Grillo sembra soffrire la propria natura divina di uno e trino: Governo, Popolo, Opposizione. La soluzione, per adesso, è un mistero di Fatima.