Giovedì la Corte di Assise di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza, nel Processo c.d. Trattativa (il “c.d.” riguarda il nome, che è gergale: quanto al suo costituire reato, essendo questa sentenza non definitiva, rimane, anche ora, “presunta”).
5252 pagine. Potrebbe sembrare solo un particolare quantitativo, quasi una mera curiosità; e, invece, simile dimensione, è il cuore della questione.
Nella Repubblica, Platone, fissa il momento topico dell’intera Opera, quello in cui si pone il tema fondamentale, in un modo apparentemente “laterale”. Il suo contraddittore, Trasimaco, crede di avere affermato vittoriosamente la sua tesi: e cioè, che la Giustizia consiste nell’utile del più forte; ma a questo punto, Socrate -ricorda Platone- avvia la sua confutazione; non a partire da ciò che aveva detto il suo avversario, ma considerando proprio la misura, l’enormità del discorso di quello: un “discorso fiume”, lo definisce Platone.
L’opposizione fondamentale, fra il vero e il falso, quindi, dipende dal metodo, prima ancora che dai contenuti: ed è fra breve discorso, in cui i singoli passaggi sono condotti attraverso “brevi domande e brevi risposte” (katà brachiù dialeghestai), tipico di Socrate; e “discorso lungo” (makros lògos), tipico dei sofisti.
Solo il primo consente un adeguato esame delle proposizioni affermate; mentre un discorso-fiume, permetterebbe di sfuggire alle contestazioni. E, infatti, Trasimaco, non senza un velo della proverbiale ironia socratica, viene qui ritratto in procinto di andarsene, proprio dopo aver pronunciato il suo “discorso lungo”, quasi in fuga dalle sue responsabilità dialogiche:
“Trasimaco, uomo demonico, dopo averci buttato addosso un tale discorso, hai in mente di andartene, prima di averci adeguatamente insegnato…”
Dove è evidente che Socrate, nonostante quel sesquipedale dire, ritiene che nulla sia stato effettivamente spiegato.
Ora, una fondamentale prescrizione, in materia di “struttura del discorso giudiziario”, è dettata dall’art. 544 del nostro Codice di Procedura Penale, il cui titolo è “Redazione della sentenza”: “…è redatta una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata”. La motivazione della sentenza deve essere “concisa”: deve essere “socratica”.
E per quanto l’articolo contempli anche la possibilità che la motivazioni risulti “particolarmente complessa, per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni”, tale “complessità”, va sempre confrontata con quel paradigma fondamentale: “concisa”. Una “concisa complessità” è il massimo a cui si può tendere.
Un esempio spero varrà a precisare, e scuserete pochi numeri.
L’Ordinanza-Sentenza del I Maxi-Processo (quello istruito dal Pool Antimafia, con Falcone e Borsellino) era di 8608 pagine, con 707 imputati; una media di 12 pagine per imputato. La sentenza dibattimentale di primo grado, di 6901 pagine, con 460 imputati, media, circa 17 ciascuno; quella d’Appello, di 3923 pagine, con 387 imputati, media 10 pagine per imputato.
Nè si può dubitare che “il numero delle parti” o “il numero e la gravità delle imputazioni”, fossero in quel caso di poco conto: è il Processo da cui tutto è partito; quello che ha messo in ginocchio Cosa Nostra (i pur meritevoli seguiti investigativi e processuali, hanno solo calcato le sue orme): tanto che anche questo Processo sulla cd trattativa, pone la sentenza che lo ha reso definitivo, quale fattore primo per l’innesco della strategia stragista (su cui, si è poi inteso innestare il “movente polifunzionale”: ma, questo è, appunto, alimento dell’odierno discorso-fiume).
Bene: la media di questa sentenza è di circa 525 pagine per imputato. Vedete un po’ voi. Ora, mentre 12, o 17, o 10 pagine, sono senz’altro riconducibili al concetto di “esposizione concisa”, con ogni buona volontà, 525, per “singola condotta”, non lo sono in alcun modo: sono un’altra cosa. Che cosa?
Per rispondere (in breve, come da premessa) si dovrebbe in primo luogo considerare che questa è una sentenza che pronuncia prevalentemente condanne: come le altre, prima rammentate. Può sembrare una differenza minima, ma non lo è: condannare significa ritenere che la presunzione di non colpevolezza è stata legittimamente vinta; che è stato spiegato, in modo persuasivo, perchè un uomo deve essere punito, e per quale sua condotta.
In modo persuasivo: cioè, immediato, chiaro, lineare. E sappiamo che più cose si dicono (e lo sappiamo per una regola logica così granitica, da essere posta a fondamento del “come” si scrive una sentenza), minore è la persuasività, la intellegibilità di una proposizione.
Una lunga sentenza di assoluzione sarebbe pure gracile, in termini logici; ma, senza paragone, meno grave: perchè, l’assoluzione, rispetto all’art. 27 Costituzione (che è “la” norma del Processo Penale), per così dire, “lascia le cose come stanno”. Non muta drammaticamente “l’ordine delle cose”.
Una condanna, no. Una condanna, inverte proprio “lo stato di quiete sociale e umano”, su cui ciascuno erige la sua propria esistenza; e, perciò, meno è persuasivo, più è ingiusto. Semplicemente. Perciò, cos’è questa sentenza? In prima approssimazione, è una sentenza ingiusta.
Ma quale può essere stata la ragione primaria, di questo errore? Traiamo spunto dalla stesse parole della Corte di Assise: “Il Processo ha assegnato alla Corte un compito arduo e pressocchè titanico: perchè i fatti sottesi… hanno riguardato la storia repubblicana, in una arco temporale compreso fra gli anni sessanta e i giorni nostri”.
Su questo specifico errore, Calamandrei rilevava che lo studio del giudice “…è delimitato da ristrette barriere che lo storico ignora”; barriere che la legge impone perchè “Quella irrequieta curiosità che spinge lo storico ad esplorare il mondo per tutti i versi e a prendere i suoi temi senza limiti di tempo e di luogo, ovunque si imbatta in eventi capaci di destare in lui risonanze umane, è inibita al giudice” (“Il giudice e lo storico”, sulla Rivista di Diritto processuale, Anno 1939, pag. 109).
Come si vede, il concetto centrale, in ogni epoca, rimane quello di “barriera”, di “limite”: di misura.
Il “compito” di scrivere in termini storici, dunque, trasforma un giudice in un Titano: cioè, in “altro da sè”. La “prova” di questo sforzo è, la sua stessa mole: la “lunghezza dell’opera”, sintomo di ingiustizia: in una coerente correlazione negativa fra strumento e risultato.
Perchè “Giustizia”, concludeva ancora Socrate “è avere e fare ciò che si può”. Oltre, si va altrove. Oltre, non c’è più la Politheia.
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